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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Sovranità vaccinale: perché il piano del governo Draghi per fare i vaccini in Italia rischia di non funzionare

Salvini su Twitter e Giorgetti (con l’ok di Draghi) parlano di un siero autarchico da mettere insieme in Italia per velocizzare l’immunizzazione dei cittadini. Il problema è che per andare in porto il progetto ha bisogno di tempo e soldi. E qui tempo non ce n’è mentre i soldi potrebbero finire sprecati in un “Whatever it takes” un po’ troppo rischioso

È stato Matteo Salvini su Twitter a coniare l’espressione “sovranità vaccinale” ma il piano per produrre in Italia il vaccino contro il coronavirus Sars-CoV-2 e Covid-19 è di Mario Draghi, visto che ne ha parlato lui stesso durante le consultazioni in Parlamento. L’impresa è affidata a Giancarlo Giorgetti, non a caso leghista ma anche vicino al presidente del Consiglio da anni. Il problema è che il piano rischia di non funzionare o, nella migliore delle ipotesi, rischia di essere inutile. Vediamo perché.

Sovranità vaccinale: perché il piano per fare i vaccini in Italia non funzionerà

Un passo indietro. L’idea dell’autarchia vaccinale era stata proposta da Mario Draghi durante le consultazioni in Parlamento: era una delle mosse del piano per velocizzare la vaccinazione in Italia. Ovvero trovare il modo di produrre direttamente in Italia il siero attraverso accordi con le industrie farmaceutiche che prevedessero la costruzione e l’infialatura in Italia. Dopo la formazione del nuovo governo evidentemente Giorgetti è stato incaricato da Draghi per verificare il dossier, visto che ha convocato al ministero dello Sviluppo per giovedì alle 14,30 Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, per verificare la possibilità di un’autarchia vaccinale.

Il problema è che già il 10 febbraio scorso Scaccabarozzi aveva bocciato l’idea di produrre vaccini contro il coronavirus in Italia: “Gli impianti non si improvvisano. In ogni caso non ne varrebbe la pena, visto che presto la produzione mondiale di vaccini andrà a regime con gli impianti esistenti”. Cosa voleva dire? Né più né meno di quanto poi ha successivamente dichiarato in altre occasioni : potenzialmente ci sono aziende disponibili, delle duecento associate cinque avrebbero la tecnologia adatta, “ma bisogna capire quali parti possono realizzare e se non sono già impegnate per gli antidoti di morbillo e influenza. Per quest’ultima a marzo si devono cominciare a produrre le dosi per l’anno prossimo”. Molte aziende, ha spiegato Scaccabarozzi, possono contribuire all’infialatura mentre la Marchesini di Bologna, che fa macchine per la farmaceutica, può dimezzare i tempi di produzione dei dispositivi per costruire gli infialatori, però tutto questo non basta: “Alcune aziende stanno studiando se riescono a dedicare una linea ai vaccini Covid-19 o a trovare i bioreattori per creare i liquidi da infialare. Questo sarebbe un apporto più completo”. Perché anche se si trovassero i bioreattori necessari ci vorrebbero da quattro a sei mesi dal momento della loro attivazione per ottenere i vaccini.

Ma, e questo è il punto più importante, nel frattempo la produzione di vaccini a livello mondiale sarà a regime e ci sarà anche una maggiore offerta sul mercato: il rischio concreto è che si arrivi a ottenere il primo vaccino italiano quando il mondo sarà pieno degli altri. Ovvero non adesso che ce ne sarebbe bisogno ma quando sarebbe del tutto inutile. Ma cosa sono i bioreattori? A Today.it lo spiega Gabriele Costantino, direttore del Dipartimento di Food and Drugs e Professore Ordinario di Chimica Farmaceutica all’Università di Parma: “Sono apparati industriali su cui far crescere microorganismi o cellule in condizioni di sterilità e controllando i parametri di reazione”. E perché ci vuole così tanto per attivarli? “Innanzitutto bisogna vedere chi ce li ha. Poi bisogna aver le licenze di produzione in conto terzi, poi bisogna aver l'accreditamento EMA per la produzione di medicinali. Non è mica un gioco. E 4-5 mesi è un tempo brevissimo, invece”.

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L’autarchia vaccinale e il problema dei bioreattori

Secondo gli esperti insomma si sta mettendo su un progetto che vedrà la luce quando l’offerta di vaccini mondiale supererà la domanda. L’industria del biotech italiano non è abbastanza forte, per usare un eufemismo, da riuscire a produrre vaccini anche se BioNTech-Pfizer, Moderna, AstraZeneca e tutte le altre fornissero la possibilità di farlo domani mattina. Perché in questi anni hanno investito su altro (a comprare licenze e a fare il Moment Act e il Tantum Rosa). E anche perché è la tecnologia stessa di alcuni dei vaccini a renderlo complicato: adenovirus si potrebbero anche produrre, mRNA no. Spiega ancora Costantino: “Per i vaccini adenovirali la tecnologia è molto ben conosciuta: si prende un adenovirus del gorilla, lo si inattiva ingegnerizzando parte del suo genoma, al fine di eliminarne l'infettività, si inserisce il segmento di RNA umano che codifica per la proteina Spike. Si inietta l'adenovirus, l'adenovirus comincia ad esprimere spike”. Nel caso del vaccino a mRNA, invece, “si deve sintetizzare e poi incapsulare mRNA nudo (che è estremamente instabile) all'interno di vescicole di lipidi (che devono aver particolari caratteristiche, tutte brevettate). In più il vaccino deve esser conservato a bassissima temperatura”. Quindi si tratta di procedure molto complesse che non si improvvisano e per questo ci vuole comprensibilmente anche del tempo.

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C’è però chi fa notare che BioNTech ha comprato un impianto di Novartis che si trova a Marburg a settembre e a febbraio ha cominciato a produrre il vaccino per il coronavirus nel sito: questo è vero, ma è anche vero che in quel sito c’erano 300 dipendenti già formati e le apparecchiature erano già pronte per produrre. Qui si partirebbe da zero. Anche se dal punto di vista economico “Sarebbe molto positivo se lo Stato supportasse un adeguamento industriale per riportare la produzione di vaccini in Italia quanto prima – ha detto all'Adnkronos Salute Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell'Agenzia europea del farmaco Ema - cosicché gli attuali produttori”, le multinazionali del farmaco dalle quali al momento dipende la distribuzione di dosi ai vari Paesi, “siano invogliati ad avvalersi anche dell'Italia” e di stabilimenti tricolore in grado di contribuire alle forniture. Ma questo sarebbe un investimento per il futuro, non una soluzione ai problemi di oggi.

E a proposito di multinazionali farmaceutiche, ora ci si potrebbe anche attendere che qualcuno dia la colpa alla “temibile Big Pharma” che vuole tenersi per sé il tesoro dei vaccini. Non è così: alcune di loro hanno già esternalizzato la produzione in alcuni paesi (e questo potrebbero fare anche in Italia senza concedere licenze. È stato fatto con la Catalent per AstraZeneca e Janssen e con Sanofi per Pfizer e ancora Janssen allo scopo di esternalizzare parte della produzione dei loro sieri. Non sarebbe questo un problema per l’Italia. Il problema invece, e lo ha spiegato ancora una volta Scaccabarozzi, è che da questa storia di autarchia vaccinale arrivata fuori tempo massimo bisognerebbe imparare la lezione: “Una pianificazione nazionale sarebbe utile anche per il futuro, in vista di altre epidemie”. Semmai il piano per il vaccino sovrano potrebbe servire per eventuali nuove versioni dei vaccini, se si rendessero necessarie a causa delle varianti (ad oggi pare di no). A partire adesso c’è il rischio di spendere soldi inutilmente, anche perché “chi si mettesse a produrli ora necessiterebbe di garanzie”, ovvero dell’assicurazione che tutta la sua produzione verrà acquistata dallo Stato per vaccinare gli italiani. Ovvero lo stesso obiettivo del piano vaccinale di oggi con 120 milioni di dosi già ordinate. Pagare due volte per avere un vaccino è un “Whatever it takes” un po’ troppo rischioso.

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