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Giovedì, 28 Marzo 2024
Psicologia e Coppia

Baby Gang: perché il problema sono (anche) i genitori

Ne abbiamo parlato con una psicoterapeuta del Cstcs Genova: "Il problema è il mondo adulto, poco presente e impegnato a rincorrere l'adolescenza, e una scuola che ha bisogno di una svolta. La pandemia? Ha fatto deflagrare problemi già presenti"

Aumenta a Genova la presenza delle cosiddette baby gang: solo negli ultimi dieci giorni, a Quinto tre minori sono stati aggrediti e rapinati da un gruppo di coetanei, a Pegli una banda di ragazzini ha devastato una palestra, mercoledì in corso Italia un giovane è stato preso a sprangate dal gruppo.

Ma si può parlare davvero di un fenomeno in crescita, o è aumentata solo la percezione del problema? Quali sono le cause, e dove occorre intervenire? Quanto incidono guerra, pandemia e il senso di smarrimento che portano con sé sullo sviluppo dei giovanissimi?

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La conferma: "Qualcosa negli ultimi tempi è cambiato"

Lo abbiamo chiesto a Giovanna Capello, psicoterapeuta del Cstcs, Centro Studi per la Terapia della Coppia e del Singolo, sui social Psicoterapia Genova. Il centro, che opera a Genova dal 1987, ha una nutrita équipe di professionisti che si occupano di disagio giovanile e che fa parte dell'Associazione dei Gruppi Italiani di Psicoterapia Psicoanalitica dell'Adolescenza.

"Incontriamo adolescenti da molti anni - dice Capello - ed effettivamente qualcosa è cambiato. Non la violenza in sé, quella è naturale e inevitabile nell'essere umano, in particolare all'esordio dell'adolescenza, quando l'ex bambino si trova alle prese con una trasformazione rapida".

In questa fase, la violenza può essere vista come una necessità per affrontare le trasformazioni: "Quello che non si trova più nella famiglia viene cercato nel gruppo, che usa una 'violenza protettiva' per difendersi dalla paura che incute il mondo esterno".

La differenza: "Oggi spesso i ragazzi non sanno perché sono violenti"

Questo però è sempre accaduto: "Certo, la violenza tribale c'è sempre stata, ma le cose sono cambiate oggi perché la violenza si sta diventando, dal nostro punto di vista, sempre più un sintomo. Non è più tanto una difesa psichica dell'individuo che sta crescendo, ma diventa una sorta di cortocircuito. Mi spiego meglio: quando si mette in atto una difesa c'è sempre un disegno, un progetto, un fine a cui tendere".

E in questo cortocircuito invece cosa accade? "C'è uno scollamento tra causa ed effetto: siamo spesso alle prese con adolescenti che si trovano coinvolti in risse e pestaggi, e quando ne parlano non sanno il perché, non sanno cosa sia successo. Questo è quello che più preoccupa, ed è un fenomeno che si presenta molto più oggi rispetto a un tempo. È una particolare forma di ristrettezza mentale della quale la violenza ha bisogno. Il ragazzo in questo caso precipita in un 'horror vacui', senza senso né nessi logici".

Insomma, il punto è non riuscire più a percepire o a dare un senso alla violenza.

"Il problema è il mondo adulto, poco presente e impegnato a rincorrere l'adolescenza"

Ma come mai questo cortocircuito, questo cambiamento nella natura della violenza tra giovanissimi? "Credo - continua Capello - che come sempre il problema riguardi il mondo adulto. Oggi un uomo adulto, nella società occidentale, rinuncia con difficoltà alla propria adolescenza, a volte abdicando alla funzione genitoriale. Vediamo sempre più spesso adulti che cercano di cancellare la differenza generazionale e sostengono un sistema narcisistico che danneggia i figli, oggi più di ieri. Come psicoterapeuti abbiamo individuato in questo modello la vera sfida, sia clinica che sociale".

Questo è il vero punto, secondo Capello: "All'origine c'è una società che si attiene su un registro adolescenziale narcisista che non vuole crescere, e i giovanissimi ne sono un frutto. Non dobbiamo spaventarci della loro violenza, dobbiamo spaventarci del nostro nascondere la testa sotto la sabbia e del modello che proponiamo loro".

La pandemia? "Ha fatto deflagrare problemi già presenti nella società"

Baby gang frutto del difficile periodo della pandemia: quante volte lo abbiamo sentito ripetere. Ma per il Cstcs il vero problema è il modello di società: "Diciamo che il covid ha fatto emergere ancora più con forza problemi che già c'erano, rendendoli molto più gravi. I ragazzi in questa fase della vita così delicata sono stati obbligati a una serie di norme imposte dalle istituzioni, in famiglie che non riuscivano già da prima a imporre molte regole. A quel punto c'è una deflagrazione, e quando questi ragazzi escono diventano violenti".

Sempre, comunque, un modo per affrontare la paura: "Gli adolescenti sono sempre più spaventati, ed è stata sdoganata per loro la possibilità di seminare intorno a loro la paura che li abita. Ma è solo un'illusoria forma di potere".

Il ruolo di famiglia e scuola

Alla fine, la sensazione è che del ruolo dei genitori si parli sempre poco: colpa del covid, della guerra, dei social. Ma poi c'è anche la responsabilità della famiglia: "Tutti abbiamo delle responsabilità - spiega Capello - ma gli adulti spesso sono troppo presi dal bisogno di giustificarsi. È tipico dello stato adolescenziale permanente in cui vogliono vivere: non è mai colpa loro, la causa è sempre al di fuori. Questo è il sistema narcisistico, ma le responsabilità degli adulti ce le dobbiamo prendere. La terapia aiuta, ma da sola non basta. Anche perché noi vediamo solo una percentuale di persone che tra l'altro riconosce di averne bisogno".

Dove occorre intervenire? "Sulle istituzioni che dei ragazzi sono chiamati a prendersi cura. Penso alla scuola, che ha bisogno di una svolta, di diventare un interlocutore davvero interessante. Bisogna interessare i ragazzi, occuparsi dei genitori. La scuola non può essere un'azienda in cui si cerca di togliersi le responsabilità il prima possibile. Ecco, penso che il punto centrale, sia per le famiglie sia per le istituzioni, risieda proprio nella responsabilità. Ci sono tante famiglie e insegnanti che si mettono in discussione, che si interrogano, che hanno voglia di fare qualcosa per i ragazzi, specie per quelli che stanno male. Altri pensano invece che la priorità sia liberarsene il prima possibile. Ma la famiglia, le istituzioni, il governo, siamo noi, non possiamo sentirci sempre chiamati fuori".

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