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Venerdì, 19 Aprile 2024
Salute

Covid, il DNA predispone allo sviluppo di una forma grave della malattia: il maxi studio su Nature

Il lavoro è basato sui dati di quasi 50.000 positivi e 2 milioni di soggetti sani, raccolti grazie alla ‘Covid-19 Host Genomics Initiative’, una rete globale che comprende più di 3.000 ricercatori di 25 Paesi, tra cui l’Italia

A distanza di più di un anno dall'inizio della pandemia si sa ancora poco sui meccanismi di infezione del Sars-CoV-2 e sui fattori che portano a uno sviluppo grave della malattia. Perché alcuni soggetti, pur convivendo con una malato Covid, non sono mai risultati positivi? Come mai alcune persone che si sono contagiate hanno sviluppato un semplice raffreddore, mentre altre gravi difficoltà respiratorie e, addirittura, un’insufficienza multiorgano? Da un maxi studio genetico condotto su scala globale, il più grande mai realizzato sul Covid-19, il motivo di questa variabilità nella reazione individuale al virus Sars-CoV2 è scritta, almeno in parte, in 13 regioni del nostro Dna, che aumentano la suscettibilità all’infezione e il rischio di sviluppare forme più o meno gravi della malattia. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, è basato sui dati di quasi 50.000 persone positive al virus e 2 milioni di soggetti sani di controllo, raccolti grazie alla ‘Covid-19 Host Genomics Initiative’, una rete globale che comprende più di 3.000 ricercatori di 25 Paesi, tra cui l’Italia, che ha fornito dati di oltre 8.000 pazienti grazie al lavoro di numerosi enti italiani, come l’Università di Siena, l’Irccs Humanitas, il Politecnico di Milano e il Ceinge Biotecnologie avanza di Napoli. La rete è stata creata nel mese di marzo 2020 dall’italiano Andrea Ganna (ricercatore all’Istituto di medicina molecolare della Finlandia (Fimm) e al Broad Insitute di Cambridge), insieme al collega Mark Daly.Tutto è iniziato tutto con un tweet", racconta Ganna. "Avevamo un network esistente da cui siamo partiti e che si è espanso in maniera molto veloce”. I risultati sono molto promettenti e potrebbero portare presto alla scoperta di nuove terapie per curare la malattia da Covid-19.

DAL GENOMA DEL VIRUS AL GENOMA DELL’OSPITE

Quello che abbiamo pubblicato su Nature - spiega Ganna - è solo la punta dell’iceberg di quanto abbiamo prodotto in questo anno: fin dall’inizio abbiamo deciso di rendere pubblici i nostri risultati ogni tre mesi per metterli a disposizione della comunità scientifica il più rapidamente possibile”. In questo anno di pandemia “si è parlato molto del genoma del virus, ma quello dell’ospite umano è altrettanto importante, perché può influire sulla probabilità di contrarre l’infezione e di sviluppare complicanze gravi”, precisa il ricercatore.

"Il DNA può indicare chi è a rischio di sviluppare una forma grave di Covid" 

LO STUDIO, I RISULTATI E GLI OBIETTIVI FUTURI

“Abbiamo trovato quattro regioni del Dna che aumentano il rischio di contrarre l’infezione e nove che invece aumentano la probabilità di sviluppare forme gravi di malattia. Alcune - spiega Ganna - hanno a che fare con la risposta immunitaria, ed erano già note per il loro coinvolgimento in malattie autoimmuni e infiammatorie, mentre altre riguardano la biologia del polmone e hanno a che fare con malattie come la fibrosi e il tumore”. L’estensione a livello globale dello studio ha permesso di individuare fattori di rischio genetici che sono specifici delle diverse popolazioni, come quelle di origine asiatica. “Un importante passo avanti, considerato che finora la maggior parte degli studi genetici è stata condotta su persone di origine caucasica”, sottolinea Ganna. “Le nostre ricerche stanno ancora andando avanti per includere un numero sempre maggiore di pazienti ed etnie: dai 50.000 pazienti positivi dello studio di Nature siamo già saliti a 125.000, e le regioni del Dna sotto osservazione sono salite da 13 a 23, anche se questi ultimi dati non sono ancora stati sottoposti a peer review per la pubblicazione. Il nostro obiettivo è produrre risultati che possano aiutare a individuare target da colpire con lo sviluppo di nuovi farmaci o il riposizionamento di quelli già esistenti. Creare questo livello di collaborazione internazionale - conclude l’esperto - ci permetterà in futuro di farci trovare più pronti e preparati nell’affrontare nuove malattie”.

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