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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Asso di denari

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A cura di Carlo Sala

Le aziende italiane più esposte alla crisi della Turchia

La lira è un problema per gli italiani, anche quando non si tratta della loro vecchia moneta ma di quella in vigore in Turchia. La crisi che ha investito il Paese può infatti avere pesanti ripercussioni in diversi ambiti - dalle banche alle infrastrutture, dalle auto alle autostrade - che vede impegnati gruppi italiani come Pirelli, Fiat e Unicredit.

Nel 2017 la Turchia è stato il quinto mercato per l’export italiano, per un valore di 11,3 miliardi di esportazioni a fronte di 8,5 miliardi di dollari di  importazioni. L’interscambio totale (export e import) è cresciuto dell’11,1% rispetto al 2016, fino a raggiungere il valore di 19,8 miliardi di dollari.

Unicredit è azionista di peso di Yapi Kredi, con una quota dell'81,9% detenuta attraverso la joint venture paritaria con Koc Group.

Fca e Pirelli sono presenti da decenni nell’area di Istanbul rispettivamente con lo stabilimento di Bursa-Tofas dove vengono prodotte decine di migliaia di veicoli prodotti, e con lo stabilimento di Izmir (costato 170 milioni di euro e usato per la produzione di 2 milioni di pneumatici industriali l'anno destinati ai mercati di Europa, Medio Oriente e Africa).

Leonardo è coinvolta dalla crisi turca con Alenia Aermacchi, perché 30 degli F-35 che quest’ultima produce sono stati ordinati da Ankara (con opzione per altri 70 velivoli) e perché partecipa anche a una commessa di 30 elicotteri da parte di Turkish Aerospace al Pakistan.

Sono esposte anche le aziende italiane di costruzioni e logistica: Cementir ha investito in Turchia dal 2001 oltre 530 milioni di dollari acquisendo Cimentas e Cimbeton; Salini-Impregilo è impegnata nella costruzione di 2 autostrade (la Kinali-Sakarya e la Tarsus-Adana-Gaziantep), di un impianto idroelettrico, della linea ad alta velocità Ankara-Istanbul e nella depurazione delle acque a istanbul.

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