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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cronache marziane

Cronache marziane

A cura di Rossella Lamina

La lezione di Robert Capa, reporter di guerra che non ballò mai la danza macabra

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Robert Capa tentò di comporre l’impossibile ritratto della guerra raccontando i cinque conflitti che aveva attraversato, mettendo in gioco la sua stessa vita e perdendola, anzitempo, sopra una mina in Indocina. Il centenario della nascita ci dà l’occasione per tornare sull’eredità di questo straordinario fotoreporter, giornalista e scrittore:  preziosa più che mai in un’epoca “all news”,  in cui tutto pensiamo di poter sapere, vedere - e comprendere - in un flusso h24.

L’ identità di Capa affonda le radici nella leggenda, come leggendari furono i suoi amori  (fra cui Ingrid Bergman) e la genesi di alcuni suoi celebri scatti. Nato nel 1913 a Budapest come Endre Ernő Friedmann, costretto a lasciare prima l’Ungheria e poi la Germania per motivi politici, Endre - che voleva studiare giornalismo -  nel 1936 si ritrova senza soldi e con una formazione da fotografo a Parigi. È qui che nasce  “Robert Capa”, il noto e prestigioso fotografo americano inventato di sana pianta insieme alla compagna Gerda Taro che, grazie al brillante stratagemma, riuscì a piazzare nelle redazioni i lavori di lui, all’epoca per tutti sconosciuto.

Taro, anche lei profuga e fotoreporter, morirà l’anno dopo travolta da un carro armato nella guerra civile di Spagna. Durante quella guerra, Capa realizzò una foto divenuta icona stessa del conflitto spagnolo: il celeberrimo miliziano ucciso. “È stata definita la migliore foto che abbia mai realizzato – affermò Capa in un’intervista radio alla NBC -  ma io non ho mai visto quell’immagine nel mirino, perché l’ho fatta tenendo la macchina sopra la mia testa”,  nel tentativo di documentare l’azione senza farsi ammazzare dai mitragliatori.

Se quello scatto celeberrimo nacque in modo accidentale (ma c’è chi dice che il caso non esiste…), il corpus della produzione di questo genio apolide è tutt’altro che casuale e privo di rigore. “Se le tue fotografie non sono all’altezza, non eri abbastanza vicino”, ripeteva lui. Ma la sua non era una vicinanza esclusivamente fisica. Una profonda empatia lo legava ai soggetti ripresi, una “scelta di campo”, insieme etica e tecnica, ha dato forma alle immagini di Capa.

Vedere per credere nelle diverse mostre Italiane, in corso od imminenti: “La realtà di fronte”, a Villa Manin (Udine) fino al 19 gennaio 2014, con un’interessantissima appendice di proiezioni, curata dall’associazione Cinemazero, che testimonia il rapporto intenso di Capa con il cinema; "Robert Capa in Italia" a Roma, Palazzo Braschi (fino al 6 gennaio 2014) e poi a Firenze, al Museo Nazionale Alinari (dal 10 gennaio al 30 marzo),  dove vengono esposte le foto realizzate fra il ‘43 e il ’44 risalendo la penisola gomito a gomito con le truppe americane. Una relazione così stretta che Capa affronta la campagna di Sicilia paracadutandosi con gli altri soldati  - e  rimanendo una notte intera appeso a un albero in mezzo agli spari, come racconta, insieme a molto altro, nella bellissima autobiografia “Leggermente fuori fuoco”.

Risalta la sua predilezione per le inquadrature dal basso, in cui il soggetto ripreso appare dominante - ma senza alcuna retorica - rispetto al soggetto che riprende, con la costante di includere la figura umana in un contesto ricco di molte altre informazioni, dinamico e narrativo. Esempio fra i tanti, la foto in questo post: il soldato solo, di spalle, si trascina fra i fumi della battaglia in un paesaggio insterilito, interrogandoci sull’indicibilità di quella sua esperienza.

Poi, l’attenzione per i momenti apparentemente “morti”, antieroici. Fatti di attese negli accampamenti, di freddo, di file per il pane; di noia. Ma anche per quelli di pietas – le cure per i feriti, il pianto per i morti. Senza ombra di cinismo, senza attrazione per il dettaglio cruento, Capa sembra condividere il dolore di chi resta e la gioia di chi è ancora vivo.

La profonda empatia di Capa emerge con nettezza nei ritratti dei prigionieri tedeschi: mai il nemico viene da lui de-umanizzato, mai reso simbolo di un qualche “male assoluto”. È uno sconfitto in carne e ossa. Ha dignità di persona umana, che prova paura e sofferenza.

Colpisce la relazione fra figura e spazio. “Nelle foto di Capa le persone non sembrano elementi incastonati in una composizione, anzi, la prospettiva libera le figure  – osserva Nicola, mentre guardiamo la “Donna fra le rovine di Agrigento”, in mostra a Palazzo Braschi  -   questo è un traguardo a cui dovrebbe sempre tendere chi desidera raccontare la realtà …”, conclude lui.

E a proposito di realtà, Capa, che è stato fra i fondatori dell’agenzia Magnum, non cerca di occultare la presenza del dispositivo fotografico – e dunque la sua stessa presenza. C’è sempre un qualche elemento che ci fa ricordare la non oggettività della ripresa, come la gente che non solo guarda in macchina ma gli si rivolge, con un urlo od un sorriso. Così Capa ha avuto l’umiltà di dirci che a raccontare quei momenti, quelle storie, non è l’occhio di dio o di un presunto altro “osservatore neutro”.  Ma un uomo fra gli uomini, con tutti i suoi limiti, con la sua visione delle cose.

A rivedere le foto di Capa oggi, col senno di poi di come si sono evoluti il fotogiornalismo, il reportage di guerra e il mondo delle news - che non lesinano i dettagli di corpi maciullati, caricati di rosso in photo shop,  o le zoomate sulle chiazze di sangue nel prime time, in una danza macabra attorno alle spoglie dei conflitti - torna in mente una polemica di diversi anni fa, incentrata sul finale di “Kapò”, il film di Gillo Pontecorvo sui lager nazisti, così criticato sulle pagine dei Cahiers du Cinéma dal regista Jacques Rivette nel 1961:

“Guardate, in 'Kapò', l'inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sul filo spinato ad alta tensione: l'uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l'alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell'inquadratura, ebbene quest'uomo merita solo il più profondo disprezzo. (…) Ci sono cose che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido e la morte è una di queste”.

Così fu per Robert Capa, che non rese mai la morte un fatto estetico e che, pur immerso fino al collo nella guerra, non volle mai ballare quella danza macabra.

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