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Venerdì, 29 Marzo 2024
Cronache marziane

Cronache marziane

A cura di Rossella Lamina

La polizia libica imbarca migranti per l’Italia: perché non se ne parla?

In Italia non volevano venire, ma la polizia libica li ha prelevati a forza dal carcere dove erano rinchiusi e li ha costretti a salire su barconi diretti nel nostro Paese. Pensavo che una simile notizia deflagrasse nel dibattito sulle tragedie in corso nel Mediterraneo. Ma, ancora una volta, mi sbagliavo.

Ismail, Amadi, Dusmane, Mamadi: vengono dalla Sierra Leone e dal Mali; chi per sfuggire dalla guerra e dalla persecuzione, chi alla ricerca di un lavoro. Con percorsi diversi, spesso tortuosi e travagliati, si sono ritrovati in Libia. sono stati imprigionati, picchiati, alcuni torturati. E poi, con uno “svuota carceri” che a quanto pare è uso frequente nelle prigioni libiche, imbarcati con destinazione Italia.

Le loro testimonianze dirette sono state raccolte dalla giornalista Flavia Amabile, che per il quotidiano “La Stampa” sta realizzando un’interessantissima serie di reportage, scritti e filmati, sulle vicende dei migranti. Guardate Il primo, uscito a ridosso dell’ultima ecatombe: “Il nostro inferno dalle prigioni libiche all’Italia”.

Dalle inchieste di Amabile emerge che questi migranti sono stati costretti a partire in date diverse e con diverse imbarcazioni. Non hanno pagato per il viaggio, non pensavano all’Italia come destinazione finale, né per lavorare, né per chiedere asilo. Se avessero potuto scegliere, qui non ci sarebbero venuti e non consiglierebbero a nessuno l’Italia come paese in cui chiedere accoglienza.

Ma secondo voi, tutto questo non avrebbe dovuto - quanto meno – entrare nel dibattito pubblico sul fenomeno? Non avrebbe dovuto almeno stimolare la politica ad indagare sulle dimensioni di queste “partenze coatte” dalla Libia? Macché: tutti zitti.

Allora i casi sono due: o io non ho capito ancora nulla di come funziona l’informazione e la politica (il che non è da escludere), oppure - anche in questo caso - le questioni più sono grosse e più vengono taciute.

Non ne vuole tener conto questa politica, italiana ed europea, che balbetta idee inutili; che propone “soluzioni” strampalate e pericolose (dalla distruzione dei battelli al bombardamento delle coste libiche); che parla di esseri umani come fossero pacchi, il cui recapito non è gradito a nessun destinatario; che a caccia del consenso degli europei impoveriti dalla crisi ne nutre le paure alimentando l’odio – sulle disgrazie altrui non lucrano soltanto gli “scafisti”…

Intanto la brava Flavia Amabile continua a portare avanti il suo lavoro, andando in giro la notte nei dormitori di fortuna alla stazione Termini di Roma, raccontandoci come trattiamo i sopravvissuti nella nostra meschina Italia costringendoli ad una vita da inesistenti.

I sopravvissuti, con tutto il loro carico di dolore, rabbia e indignazione, intanto si sono organizzati.  Lanciano il proprio atto di accusa a tutti i presidenti delle istituzioni che contano, definendo quei morti nel Mediterraneo “un crimine politico e morale”. Preparano mobilitazioni internazionali, come la Giornata di azione del 22 maggio prossimo della CISPM (Coalizione Internazionale Sans papiers, Migranti e Richiedenti asilo), con iniziative in tante città del mondo “contro le politiche schiaviste, razziste, repressive e per il diritto alla libertà di movimento, all’asilo, alla regolarizzazione ed alla libertà di residenza e di lavoro in Europa”.

E piangono e pregano nelle nostre piazze, come è avvenuto a Roma lo scorso 23 aprile davanti al Parlamento.

Ero lì quel pomeriggio ed a quel pianto mi sono unita. A quella preghiera, di cui non conoscevo le parole, mi unisco attraverso le parole di Erri De Luca:

Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola e del mondo,
sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale.
Accogli le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde,
i pescatori usciti nella notte,
le loro reti tra le tue creature,
che tornano al mattino con la pesca
dei naufraghi salvati.

Mare nostro che non sei nei cieli,
all’alba sei colore del frumento,
al tramonto dell’uva di vendemmia,
ti abbiamo seminato di annegati
più di qualunque età delle tempeste.

Mare nostro che non sei nei cieli,
tu sei più giusto della terraferma,
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le visite cadute
come foglie sul viale,
fai da autunno per loro,
da carezza, da abbraccio e bacio in fronte
di madre e padre prima di partire.

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