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Martedì, 23 Aprile 2024
FotoGrammi

FotoGrammi

A cura di Maria Carola Catalano

Nell'era del citizen journalism il fotoreporter è morto?

La diffusione dei social network e degli smartphone ha cambiato la fotografia e in particolare il fotogiornalismo. Documentare un fatto non è più un mestiere per pochi eletti, i fotografi iscritti all'ordine; sono sempre più numerosi coloro che si "improvvisano" fotoreporter scattando una foto quando si trovano ad avere davanti una notizia: che sia un incidente, un incendio o una protesta.

Del resto questo è il tempo del giornalismo che vede la "partecipazione attiva" dei lettori, grazie alla natura interattiva dei nuovi media e alle possibilità offerte da internet. 

E' un dato di fatto, sul quale non c'è molto da discutere: nel 2005 è stato un "profano", che si trovava dentro la metro, a scattare con il suo smartphone l'immagine utilizzata poi dalla Bbc per raccontare l'attentato terroristico nella metropolitana di Londra. C'è chi sostiene, come Brian Wallis, curatore della mostra sull'attentato di Dallas all'Icp Center di New York, che il 'fallimento' dei fotoreporter sia antecedente e risalga appunto al 1963, quando venne ucciso Kennedy. "In quella occasione - spiega Wallis all'Espresso - nessuno dei molti fotoreporter presenti sulla scena riuscì a catturare il momento degli spari. I media poterono fare affidamento sulle sole immagini scattate da fotografi amatoriali, come Abraham Zapruder e Mary Moorman".

Qualunque sia la data di inizio del citizen journalism, quel che è certo è che questo fenomeno ha prodotto vantaggi e svantaggi e diviso i fotografi di professione in due categorie: quelli a favore di questa apertura e quelli che invece ritengono che questa realtà stia facendo morire il mestiere. Due le motivazioni principali che spiegano la presa di posizione di questa seconda categoria di fotografi: si abbassa l'asticella della qualità e la vita del fotoreporter diventa sempre più difficile poichè, potendo i giornali avere una foto gratis sono sempre di meno coloro che acquistano le immagini dai professionisti.

Io penso che la verità sia, come quasi sempre, nel mezzo. Le foto degli utenti aiutano i giornali a documentare la realtà. La tempestività è sempre stata importante nel giornalismo e con l'avvento di internet lo è ancor di più. Se un lettore è più veloce del fotografo professionista o, meglio, ha la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, scatta e manda la foto ai giornali, quest'ultimi non possono non pubblicarla. Con gli smartphone e grazie ai social avere foto dei fatti in tempo reale è diventato facile, per non dire normale.

Questo però non porterà alla scomparsa del fotogiornalismo che è vivo e vegeto. Solo, è cambiato il raggio d'azione, che si è ristretto. I lettori possono e riescono a raccontare il momento, permettendo al giornalismo web di dare un'informazione tempestiva. Il reportage è un'altra cosa: un lavoro che ha bisogno di tempo e di professionalità, necessario per raggiungere il cuore dei fatti e spiegarne i motivi approfondendo quello che appare al primo sguardo e che spesso, andando a fondo, si rivela essere altro. 

A riprova di quanto detto, basta fare una breve ricerca su internet per scoprire che anche nell'era del digital c'è chi vive raccontando gli eventi attraverso le proprie foto. E' quello che fanno, ad esempio, i cinque fotografi che hanno creato Me-mo Magazine, rivista digitale di fotogiornalisti che si definiscono "pionieri del foto giornalismo di alta qualità unito alla tecnologia". Tra loro c'è un italiano Fabio Bucciarelli, torinese, 1980. Ha vinto la Robert Capa Gold Medal, il Prix Bayeux-Calvados, il World Press Photo, POYi, BOP e il Word Report Award. Il suo lavoro è stato esposto in gallerie e musei a New York, Torino, Londra, Barcellona e Kuala Lumpur ed ha scritto anche dei libri, l'ultimo è “L’Odore della Guerra”. Dalla Turchia, non lontano dal confine siriano, l'ultimo reportage GRAN HOTEL di rifugiati pubblicato da Al Jazeera America. 

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