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Martedì, 23 Aprile 2024
Le affinità elettive

Le affinità elettive

A cura di Annalisa Terranova

Ernst Jünger, la Grande Guerra e i tempi di pace

Il 24 maggio del 1915 l’Italia entrava in guerra. Un centenario sul quale forse è il caso di riflettere, oltre la superficie della propaganda tricolore e del doveroso omaggio ai caduti della Grande Guerra. Ricordare milioni di caduti, allora, non in un’ottica puramente nazionalista ma con lo sguardo visionario di un grande autore come Ernst Jünger, testimone privilegiato del Novecento. La sua vita fu un “passaggio al bosco”, una sorta di viaggio in cui affinò la capacità del suo sguardo interiore, anche grazie all’esperienza della Prima guerra mondiale che lo vide tenente ardimentoso e coperto di medaglie e di ferite (come racconta in “Tempeste d’acciaio”).  

Jünger sapeva che la guerra non è eliminabile dall’orizzonte umano ma scrisse pagine bellissime sulla pace (in un pamphlet del 1941, La Pace, pubblicato solo nel 1945 con dedica al figlio caduto a Carrara nel 1944) come occasione di crescita spirituale per la persona al di là delle appartenenze e dei confini. L’uomo dei tempi di pace, dismessa la divisa, potrà riconoscere il comune patrimonio spirituale che lo lega a chi un tempo gli fu nemico. Solo così il sacrificio di vite umane non sarà reso vano. Inutile dire che quella di Jünger fu una visione utopistica dei rapporti vincitori-vinti, in cui prevalse la saggezza del letterato più che l’esperienza dell’uomo d’armi ma che vale la pena comunque di diffondere quando si ricordano i milioni di caduti nella Grande Guerra:

"Quale sarà ora la formula sacra della nostra riflessione? Sarà questa: la guerra deve portare frutto a ciascuno. E dunque, se la guerra deve portare frutto a ciascuno, in primo luogo occorre che ci chiediamo da quale seme più tardi germoglierà questo raccolto. Non potrà nascere dalla discordia, dalla persecuzione, dall’odio, dalle ingiustizie del nostro tempo. Questo è il grano cattivo che è stato seminato in abbondanza e di cui vanno estirpate le tracce. Il vero frutto può crescere solo dal patrimonio comune dell’uomo, dal suo nucleo migliore, dal suo sostrato più nobile, più disinteressato. Questo va cercato là dove, senza pensare a se stesso e al proprio bene, egli vive e muore per altri, per altri offre sacrifici… Il sacrificio fu l’azione in cui prese parte incondizionatamente anche l’ultimo e il più semplice degli uomini. Nella memoria dei tempi più lontani rimarrà impresso l’immane spettacolo di come in tutti i paesi, quando giunse l’ora, essi si misero in marcia verso il combattimento ai confini… Dietro i fronti vermigli si stendevano le grigie profondità senza luce degli eserciti del lavoro. In essi si è assommato il più grande contributo che gli uomini abbiano mai diretto a uno scopo. Per sempre, colmi di riconoscenza, di commozione dovremo pensare a questi uomini e donne, ai loro giorni stentati in stanze tetre, alle loro veglie notturne in città oscure, al loro operare pieno di abnegazione, oppresso fin nel profondo dall’ansia per la sorte di fratelli, sposi, figli…  Il buon grano che qui è stato macinato non può andare perduto, per lungo tempo dovrà fornirci il pane"

 (La Pace, Guanda 1993, pagg. 12-13).   

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