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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Leggere il mondo

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A cura di Chiara Cecchini

Storie di donne che lavorano in un’Italia troppo al maschile: “Femminile plurale”

Dieci donne. Dieci storie di lavoro al femminile nell'Italia di oggi, che restituiscono un universo variegato di professionalità , esperienze, famiglie diverse. Tutte però sono accomunate da un fattore: il tentativo di emergere in un mondo del lavoro declinato ancora troppo spesso al maschile (per non parlare della società), nonostante l’articolo 37 della Costituzione (“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”). A raccoglierle è Giorgia D’Errico, che da anni si occupa di politiche del lavoro, in un libro pubblicato da Round Robin dal titolo “Femminile plurale”.

"Femminile plurale": storie di donne che lavorano

C’è Pamela, operatrice in un call center e madre di tre figli, abituata a darsi il cambio con il marito che aveva turni diversi da suoi e che invece ora è a casa, dopo essere stato licenziato: una vita fatta di impegno, salti mortali per conciliare lavoro e famiglia e soprattutto l’attenzione a ogni centesimo, in un sistema burocratico e di assistenza in una grande città come Torino che non la sostiene. C’è anche Elena, albanese di 44 anni che lavora come interprete e traduttrice nei tribunali, assistendo gli imputati stranieri, traducendo documenti e intercettazioni: è pagata circa 2,70 euro netti all’ora, per un lavoro complesso e pericoloso da cui dipendono tante cose. E Patty, che fa la tassista a Roma, dopo aver preso un turno di notte per potersi occupare di giorni dei tre figli, e chiede più tutela e protezione per le mamme sole che lavorano.

Non solo. Sara, triestina con mamma italiana e papà congolese, è il capitano di una squadra di calcio e chiede una legge che riconosca il professionismo sportivo femminile. Katia, meridionale, si è inventata un lavoro creativo dopo essere rimasta a casa una volta rimasta incinta e ora vende oggetti lavorati a mano, mentre Chiara vende abiti del suo paese d’origine, una comunità di 15mila abitanti sul golfo di Taranto. Vanessa invece gira l’Italia con una valigia rossa: si occupa di salute e benessere sessuale femminile ed è una consulente formata per parlare di sessualità ed aiutare ad andare oltre tabù e pregiudizi. Sabina ha messo su un laboratorio orafo a Roma, nel quartiere di San Lorenzo. Una lavoratrice di una compagnia aerea preferisce restare anonima per raccontare la situazione sua e di altre colleghe. Diva è l’ad di una start up americana e spiega come ci si sente a dover far capire ogni volta il proprio valore e il proprio ruolo quando ci si presenta, cosa che a un uomo non capita.

“La sfida delle nostre madri è stata la conquista dei diritti come il divorzio o l’aborto. La conquista della libertà di scegliere. Scegliere di studiare, di lavorare o di occuparsi dei figli, scegliere di conservare una propria identità e autonomia. Scegliere di scegliere. Ma dovendo rinunciare alle proprie caratteristiche femminili. Sono dovute entrare in uno spirito competitivo che ha eliminato tutto quello che invece doveva essere valorizzato. Sono state costrette a volte a sostituire i colleghi maschi. Mai ad affiancarli portando tutte loro stesse – scrive D’Errico - La sfida della mia generazione è ancora più pesante. I diritti ci sono, alcuni sono stati aggirati. Ma vanno mantenuti senza rinunciare alle proprie caratteristiche che dovrebbero essere un valore. Ovunque”.

Intervista all'autrice Giorgia D'Errico

Come è nata l’idea di “Femminile Plurale”?

È nata mentre raccontavo ad un amico, una delle tante donne incontrate per caso. Mi disse: 'Perché non dai voce a queste donne che restano in silenzio ma che hanno davvero molte cose da dire?'. Così ho provato a portare a termine questa missione. Alcune di loro le ho trovate per caso, altre le ho proprio cercate.

Dieci ritratti, quasi dieci conversazioni tra amiche, con donne che possiamo conoscere o incontrare per strada. Ma si tratta di donne particolari, che fanno lavori “insoliti”. Come mai questa scelta?

Perché il mondo è cambiato e con esso anche il lavoro. Immaginare che le donne siano rimaste ferme è un errore. Le donne hanno risposto in maniera quasi inaspettata alla crisi. In ambito professionale si adattano più facilmente e sanno reinventarsi più velocemente. Il problema è solo la possibilità di avere le stesse opportunità.

Cosa signfica “lavorare” per un uomo e “lavorare” per una donna?

Io non credo ci siano così grandi differenze, soprattutto per la nostra generazione. Bisogna vedere come questa cosa sia ancora vista dal mondo. Un uomo che lavora tanto è un gran lavoratore. Una donna che lavora tanto ‘vuole fare carriera’. È molto più facile che sia la donna a scontrarsi con i problemi della conciliazione ‘tempi di vita, tempi di lavoro’ che non l’uomo. Siamo in un Paese dove la paternità dura solo 5 giorni e può essere utilizzata solo nei primi mesi di vita.

Le donne lavorano, ma a quale prezzo? In epoca di diritti negati e rinunce come quella che stiamo vivendo, cosa hanno perso le donne?

Il diritto alla condivisione intanto. Molte delle donne che ho intervistato si sono gestite e risolte in solitudine i loro problemi. Dobbiamo imparare dalle donne straniere a fare rete. Loro sono una straordinaria fonte di contaminazione e in molti casi sanno davvero sostenersi. 

L’Italia per le donne è ancora un paese ottocentesco? 

Assolutamente si. È sufficiente pensare che in questo Paese le donne, ogni anno, a parità di mansione, guadagnano 3.000 euro in meno degli uomini. Oppure sono quelle che spesso, per sostenere il lavoro di cura dei figli o dei propri genitori, debbono rinunciare al proprio lavoro. Le parole che mi sono sentita ripetere maggiormente dalle ragazze intervistate è ‘colpa’ e ‘rinuncia’, parole che con il lavoro non dovrebbero c’entrare nulla. Nel libro scrive che le donne "sono state costrette a volte a sostituire i colleghi maschi, mai ad affiancarli portando tutte loro stesse”.

Quali valori portano e come la loro piena e paritaria occupazione potrebbe migliorare il mondo del lavoro (e la società)?

Essere consapevoli che le donne possano portare contributi diversi per le loro caratteristiche anche nei luoghi di lavoro, può diventare sono un ricchezza per questo Paese. Ho pensato che per troppo tempo abbiamo inseguito il ‘maschile’ per poter competere, se pur ad armi ímpari. Ora la sfida è proprio quella: cercare di far incontrare quelle che sono le caratteristiche maschili per esempio nell’organizzazione del lavoro o nell’elaborazione, con tutta la ricchezza che possono portare in questa direzione le donne.

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