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Giovedì, 25 Aprile 2024
Leggere il mondo

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A cura di Chiara Cecchini

Dmitrij Shostakovich: il Potere, la Storia e l’Arte oltre “il rumore del tempo”

"Sapeva solo che quella era la volta peggiore. In piedi accanto all’ascensore da tre ore, si era acceso la quinta sigaretta e i pensieri gli ronzavano in modo convulso. Facce, nomi, ricordi”. Inizia come un giallo “Il rumore del tempo” di Julian Barnes, biografia romanzata di un genio musicale schiacciato dal peso del totalitarismo: nel cuore della notte, il suo protagonista aspetta che qualcuno venga a prenderlo per portarlo via in un luogo da quale potrebbe non tornare più. E’ Dmitrij Dmitrievič Šostakovič. Siamo nel 1936, la sua opera “Una Lady Macbeth nel distretto di Mcensk”, prima acclamata, ora è diventata invisa al regime, “caos anziché musica”. Questa è la definizione che ne viene data sulla Pravda, in un articolo scritto probabilmente da Stalin stesso, che fa all’improvviso di Šostakovič un “nemico del popolo” e i suoi lavori l’opera di un “piccolo borghese formalista”. Da allora ogni notte il musicista aspetta che la polizia segreta venga a prenderlo per interrogarlo. Nell'attesa ripensa all’infanzia, all’incontro con la musica, agli amori passati. Alla fine, il “Potere” lo convoca, vuole che denunci il mecenate che lo ha aiutato, ora accusato di aver ordito un complotto contro Stalin. Sono gli anni delle Grandi Purghe, ma il freddo funzionario incaricato di interrogarlo, all’improvviso sparisce anche lui, inghiottito dalle tenebre. 

Questa “conversazione con il Potere” segna la prima crisi di Šostakovič. Dodici anni dopo ci sarà un’altra conversazione, stavolta al telefono con Stalin in persona. E’ il 1948 e il dittatore vuole che Šostakovič vada a New York con una delegazione per rappresentare l'URSS al Congresso per la Pace nel mondo. Il musicista prova a rifiutare, ma tutte le sue scuse vengono respinte con fermezza da Stalin. Šostakovič è all’angolo e tenta il tutto per tutto: come può egli rappresentare l’URSS se la sua musica viene messa al bando nel suo stesso paese? Stalin si stupisce, lui non ha mai dato ordini del genere e qualche giorno dopo la questione viene miracolosamente risolta: è stato solo un errore e basta la firma di Stalin su un documento a riabilitarlo. Così Šostakovič parte per gli Stati Uniti, dove è costretto a leggere discorsi scritti per lui, testi di propaganda che non condivide ma che non può evitare di declamare. La sua speranza è che chi lo ascolta conosca la sua situazione, percepisca dietro il suo tono di voce monocorde e automatizzato la tragedia che sta vivendo quando è costretto a chiamare traditore colui che invece considera il più grande musicista del suo tempo, Igor Stravinskij. Ma questo non accade e quel viaggio, durante il quale viene attaccato e ridicolizzato pubblicamente durante da una conferenza da Nicolas Nabokov, musicista russo al soldo della Cia, rappresenta uno dei momenti più umilianti della sua vita. 

Passando altri dodici anni e nel 1960 Šostakovič ha la sua terza e ultima conversazione con il Potere. Stalin è morto, al Cremlino ora c’è Chruščëv. Con lui il Potere era diventato vegetariano, aveva detto Anna Achmatova, “anche se si può benissimo strozzare qualcuno ingozzandolo di ortaggi non meno che utilizzando i metodi tradizionali del passato carnivore”, come Barnes fa dire a Šostakovič, campione nel libro di una sottile e dolorosa ironia. Al musicista viene offerto un grande onore, diventare il Presidente dell’Unione dei Compositori dell’URSS. Ancora una volta Šostakovič cerca in tutti i modi di rifiutare, ma alla fine è costretto e per farlo deve sottostare a un’ultima, umiliante imposizione: iscriversi al Partito comunista. Per lui è il momento più difficile, il colpo di grazia. 

Barnes sceglie di affidarsi alla narrazione in terza persona per dar voce ai pensieri dello stesso Šostakovič. Da quelli scopriamo il conflitto interiore dell’uomo e dell’artista al cospetto con il regime. La scrittura precisa ed elegantissima di Barnes compone un mosaico di dettagli, ognuno dei quali restituisce non sono la complessità del suo protagonista ma soprattutto l’ambiente stesso nel quale egli è calato. Bastano infatti poche parole, un aggettivo, una battuta ironica e angosciata al tempo stesso, per restituire il dramma esistenziale ed artistico di Šostakovič, schiacciato dal peso della violenza - soprattutto psicologica - del regime sovietico. Barnes sospende qualsiasi giudizio sul suo personaggio e ci invita a fare altrettanto. “In Unione Sovietica era impossibile dire la verità e sopravvivere”, dice lo Šostakovič di Barnes, che non può, non vuole e non saprebbe neppure essere un martire come fu ad esempio quello Osip Mandel’stam autore de “Il rumore del tempo”, il poeta russo morto in un gulag in Siberia da cui Barnes non a caso prende in prestito il titolo.

Essere un vigliacco non è facile. Molto più facile essere un eroe. A un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante: quando estrae la pistola, quando lancia la bomba, attiva il detonatore, fa fuori il tiranno e poi se stesso. Essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura una vita. Mai un po’ di riposo. C’è da anticipare l’occasione successiva in cui si dovrà tergiversare, mostrarsi servili, giustificarsi, riabituarsi al gusto di nuovi stivali da leccare e all’amarezza di constatare la propria rovinosa abiezione. Essere un vigliacco richiede costanza, fermezza, impegno a non cambiare, il che si risolve in una certa qual forma di coraggio

“Sotto la pressione del Potere, il sé scricchiola, cede”, scrive Barnes, parlando di un uomo che la vita ha ormai “ridotto in innumerevoli frantumi, che cerca invano di ricordare come essi un tempo costituissero un insieme”. Tra quei frantumi c’è lo Šostakovič pubblico, quello che si adatta compiacere il Potere, ma c’è anche quello privato, “un uomo introverso attratto da donne estroverse”, gentile, legato alla famiglia e agli amici, che nella musica da camera trova un rifugio intimo in contrapposizione ai lavoro celebrativi, pomposi e spesso retorici, che il regime gli richiede. “Quando tutto il resto veniva meno, quando sembrava non esserci che assurdità nel mondo, allora si aggrappava a questo: che la buona musica sarebbe stata sempre buona, che la grande musica era inviolabile”, scrive Barnes. Perché, in fondo, “cosa poteva contrapporre al rumore del tempo? Solo la musica che viene da dentro - la musica del nostro essere - che alcuni sanno trasformare in musica reale. E che se nei decenni a venire sarà abbastanza forte e pure e autentica da annegare il rumore del tempo, si trasformerà nel mormorio della storia”. 

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