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Giovedì, 28 Marzo 2024
Leggere il mondo

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A cura di Chiara Cecchini

Storia di Evelyn McHale, che non volle essere "la brava moglie di nessuno"

Un boato scuote la Trentaquattresima strada la mattina del 1 maggio 1947. A provocarlo non è una bomba, ma una ragazza precipitata dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building e finita sul tetto di una limousine di un diplomatico delle Nazioni Unite. Un giovane studente di fotografia passa di lì in quel momento e scatta. La foto finisce sulla rivista Life e consegna Evelyn McHale all’eternità: il viso miracolosamente preservato, le labbra rosse, le mani guantate che sembrano giocare con il filo di perle intorno al collo, la posa innaturale eppure elegante, come addormentata su un letto di lamiere che si è richiuso su di lei. Le sue ultime parole affidate a un biglietto:

Non voglio che nessuno mi veda, nemmeno la mia famiglia. Fatemi cremare, distruggete il mio corpo. Vi supplico: niente funerale, niente cerimonie. Il mio fidanzato mi ha chiesto di sposarlo a giugno. Ma io non sarei mai la brava moglie di nessuno. Sarà molto più felice senza di me. Dite a mio padre che, evidentemente, ho fin troppe cose in comune con mia madre

Moltiplicata da Andy Warhol, citata da David Bowie, da quella mattina di maggio di settantuno anni fa la foto di Evelyn McHale non ha mai smesso di incuriosire ed ossessionare e ora Nadia Busato ricostruisce la sua storia in un romanzo, edito da SEM. 

Frutto di un lavoro durato anni tra ricerche e interviste, "Non sarò mai la brava moglie di nessuno" si compone di dieci capitoli, dieci voci diverse sul mistero che Evelyn McHale ancora oggi rappresenta.

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Si parte dalle figure di contorno. La prima voce che sentiamo è quella della madre: la donna con la quale Evelyn riconosce alla fine della sua vita di avere «fin troppe cose in comune», in fuga in cerca di oblio da un marito e da una vita soffocante nonostante l’amore per i figli. Busato fa parlare la sorella di Evelyn, da cui la ragazza abitava quando stava a New York, e che è chiamata a riconoscerne il cadavere sul tavolo dell’obitorio; il suo fidanzato Barry, che poche ore prima del suicidio l’aveva salutata con un bacio senza notare nulla che potesse far presagire quel salto nel vuoto da 381 metri; una commilitone del Women’s Army Corp, nel quale Evelyn presta servizio giovanissima prima di trasferirsi a New York. Ci sono anche il racconto del poliziotto in servizio quando il corpo di Evelyn si è schiantato su quella limousine; quello di Robert Wiles, lo studente di fotografia che per pura casualità si trova nella condizione di fissare per sempre su pellicola l’ultima immagine di Evelyn divenuta poi un’icona della cultura pop (e che dopo quella foto non pubblicherà più nulla in tutta la sua vita) e quello delle tre editor di Life che costruiscono il mito del «suicidio più bello». Parlano anche il primo suicida dall’inaugurazione dell’Empire State Building, Friederick Eckert, e Elvita Adams, che tentò di uccidersi lanciandosi anche lei dall’ottantaseiesimo piano ma cadde sul cornicione dal piano inferiore, spinta dal vento. Infine Busato dà voce «come ad un’amica» alla stessa Evelyn McHale. Inquieta e tormentata come tutti gli altri personaggi, Evelyn è a disagio in un mondo che si vorrebbe dai colori pastello, dai ruoli femminili già definiti come tante gabbie dalle quali sembra impossibile uscire, quel mondo che lei rifiuta e che la depressione rende insopportabile. 

Con una prosa chirurgica ma rispettosa, la scrittrice entra in punta di piedi in una vicenda privata diventata iconica, alternando introspezione e ricostruzione storica (e scientifica), tra realtà e verosimiglianza, e riflettendo su quella morte esposta al pubblico, senza sangue eppure macabra, replicata all'infinito senza però diventare spersonalizzata: il suo mistero rimane e colpisce. 

Noi non conosciamo né conosceremo mai la vita di questa donna. La ricostruzione che possiamo farne sarà inevitabilmente troppo luminosa e perfetta, avrà punti fermi e certezze. Ma l’unica che potrebbe guidarci nell’ombra è morta. E la sua morte, fotografata, è in effetti l’unico fatto che ci parla di lei. Le cose sono come sono. Le domande a volte non hanno una risposta. E lei, a differenza di me, può ancora essere così fortunato da ignorare addirittura che la domanda esista

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