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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Abolizione "ecologica" dello spazio pubblico

Il termine gentrification è ormai da molti anni oggetto di una multiforme e comunque incredibile manipolazione. Ricordo personalmente un lato probabilmente «ignorante» di questo processo, già prima che intervenisse quello della premeditata confusione di termini oggi così in voga. Quando mi pare ancora negli anni '80 lessi su un saggio piuttosto improvvisato, una specie di filologo altrettanto improvvisato sostenere che trattandosi di gentry allora la cosa doveva in qualche modo riguardare le campagne, sede istituzionale della categoria a parere del Nostro. E magari quel processo di sostituzione sociale avvenire solo ed esclusivamente per importazione intra moenia delle classi ricche dalla campagna. Inutilmente cervellotico, ignaro dell'origine scientifica sociologica della parola, ma molto emblematico di ciò che sarebbe letteralmente esploso dopo quel salto di qualità, dalla pura sostituzione sociale al neo Urban Renewal postindustriale, più simile agli antichi sventramenti delle città ottocentesche che al processo più sottile che la sociologa Ruth Glass aveva rilevato e battezzato nella Londra del secondo dopoguerra. Con l'idea di «gentrification all'americana» entra in campo praticamente di tutto e il contrario di tutto. In particolare, per quel che ci interessa qui, entra in campo l'ossimoro della Gentrification Buona, prima del tutto assurdo.

Uno degli aspetti peculiari determinanti del processo di sostituzione sociale senza trasformazioni fisiche particolari, era infatti se vogliamo anche del tutto slegato da aspetti come il reddito la cultura la classe sociale dei nuovi abitanti, ma stava nel loro sostituire al quartiere urbano complesso, magari contraddittorio, conflittuale, resiliente, l'apatia di un vero e proprio ghetto segregato, omogeneo, privo di sfumature. Chiudevano negozi e non ne riaprivano dei nuovi, o ne riaprivano pochissimi e privi di inserimento in una rete di relazioni locale. Si impoverivano gli spazi pubblici, ridotti a un magari decoroso ma asettico «vuoto urbano», magari riempito dalla sosta dei veicoli o dal degrado indotto da soggetti indesiderabili ma impossibili da metabolizzare, come nel vecchio quartiere multiclasse. La stessa cosa avviene in realtà anche nei processi attuali caratterizzati in primo luogo da una totale pesante sostituzione edilizia-urbanistica preliminare, proprio quelli in cui entra quella curiosa interpretazione pubblica della Gentrification Buona: pura intenzione in realtà, perché invece di introdurre o conservare complessità si limita a creare ghetti incomunicanti dentro ad altri ghetti, tra mille contraddizioni ampiamente rilevate. Ma non è ancora tutto.

Non è tutto perché, come aveva involontariamente rilevato il pasticcione citato all'inizio, con la sua «gentry campagnola trasferita in città», in effetti ci sono aspetti della grande esplosione suburbana novecentesca che sotto l'etichetta omnibus della gentrification si stanno trasferendo pari pari in città, conferendo nuovo inedito senso anche all'idea di ghetto, prima solo sacca di povertà ed emarginazione. Oggi quel ghetto diventa fisico, quando per esempio a sbarcare nel tessuto denso e complesso arrivano lo shopping mall oppure il quartier generale di impresa ribattezzato campus. E quando la cosa assume dimensioni davvero urbanistiche, interessando il tessuto pubblico privato e delle relazioni, il ghetto si fa elemento costitutivo della città, sostituendosi idealmente alla neighborhood unit novecentesca, per quanto distorta e ribaltata. E soprattutto, ad imitazione del prodotto forse più odioso di suburbia, la gated community, obliterando potenzialmente l'idea di spazio pubblico dentro quella di privato-accessibile a condizione. Ovvero allargando a tutta la città «gentrificata» o rigenerata o riqualificata che dir si voglia (qui il giochetto sulle parole è ormai insopportabile) quell'idea di castello fortificato esclusivo per pochi privilegiati, di cui alcuni anni fa ci tracciava il profilo Anna Minton nel suo seminale Ground Control, allora focalizzato soprattuto sugli spazi commerciali. Curiosamente, sinora a salvarci dal vero dilagare di questi concetti è stata la mobilità automobilistica, e il timore è che approfittando della profonda e radicale riorganizzazione del settore, con la necessità di molti meno spazi dedicati, dalla sosta alla manovra ai servizi, qualcuno non decida di privatizzare anche quelle reti. Ne sono consapevoli, i teorici della città restituita ai pedoni, alle biciclette, e magari «densificata» cedendo i diritti edificatori degli ex sterminati svincoli e parcheggi? Non pare una questione di poco conto.

La Città Conquistatrice – Densificazione

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