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Venerdì, 29 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Architetti che odiano le città

È stato durante una lontana e dimenticata lezione di altrettanto dimenticato progettista, all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, che ho ascoltato per la prima volta quel modo di dire: «negare la città». Nel corso degli anni ho poi pur abbastanza confusamente capito che quella «negazione» in realtà era da interpretare in tanti possibili modi diversi. Per esempio come spunto per iniziare a ripensarlo, lo spazio, anche nascosti dietro la barriera della «negazione» a volte brutale, fisica oltre che concettuale. Però guardando meglio tanti di quei ripensamenti, ho iniziato a sospettare che dietro la barriera della negazione si nascondesse in realtà qualcosa di assai simile all'odio: architetti che odiano le città, non le sopportano in quanto tali, detestano la complessità che gli scivola via dal tavolo da disegno, dalle linee che appena le tracci cominciano subito in una misura o nell'altra a diluirsi là dentro, perdendo la pura anima originaria.

Negare la città è qualcosa che si esprime anche in modi diversi dal costruire muri ciechi o altre barriere fisiche. Lo si può fare rifiutando ideologicamente tante «contaminazioni» col reale, come quando si progettano spazi semplici o complessi per individui o formazioni di fatto inesistenti, al massimo minoritarie, giustificando queste scelte con la solita utopia: sogno una società diversa, e auspico la sua ascesa predisponendo i suoi spazi ideali. Anzi, di più ancora, quegli spazi hanno uno scopo pedagogico, ovvero di plasmare la società così com'è ora, portandola ad assomigliare il più possibile a quella ideale che sogna l'architetto, rivoluzionario o riformista coi suoi strumenti. Obiettivo nobile e condivisibile se espresso così nei tratti generali, ma molto meno se poi andiamo, così per dire, a «dare un nome e un cognome» a quegli spazi pedagogico-rivoluzionari, che permeano di sé l'intera storia urbana novecentesca, lasciando una lugubre scia di vittime sacrificali, quasi sempre attribuite dagli interessati non a responsabilità proprie, ma a più confusi destini.

È soprattutto davanti a questo diniego di responsabilità, che si inizia a riflettere su una probabilità: si tratta di vero e proprio odio, non di negazione strumentale, tattica. Una specie di odio adolescenziale sordo e cieco che non riesce a sfociare in pur costruttiva rivolta, dialettica, scontro, limitandosi al mugugno spaziale fine a sé stesso, anche se molto apprezzato spesso e volentieri da un mercato che ci vede interessanti lucrosi sbocchi. Pensiamo per esempio a quanto accaduto dopo lo straordinario successo di immagine del progetto High Line di Manhattan, a suo modo espressione riuscita di un atteggiamento lontanissimo dall'odio, o dalla negazione della città. Costruzione attenta, per quanto certo imperfetta, di equilibrio fra bisogni sociali locali (molto meno quelli di tutti i ceti, sociali), l'estetica della città, la qualità di spazi, flussi, attività economiche. Ma cos'è stato colto, in tutto il mondo, dalla cultura del progetto intesa nel suo insieme e in massima parte? Che pareva molto trendy riusare un percorso in quota per farci passeggiare la gente in mezzo a qualche genere di arredo a verde.

Ed ecco spuntare ovunque progetti e sparate a vanvera dove si «negava la città» cancellando strade ben in esercizio quotidiano, ponti ferroviari trafficatissimi, passerelle modeste certo dismesse e degradate, ma che non collegavano assolutamente nulla, per metterci fioriere lussureggianti solo sulla carta, e le immancabili repliche eterne del Modulor corbusieriano, vero e proprio crash dummy simbolico di un secolo di architettura moderna dagli scopi sociali a dir poco misteriosi. E non era ancora finita qui, perché pochi giorni fa è addirittura spuntata la prima versione addirittura autostradale di High Line, dove i pedoni disegnati tra le fioriere passeggiano inopinatamente (non si sa da dove vengano, né dove siano diretti, forse vorrebbero solo buttarsi di sotto sconsolati) tra le corsie veloci del ponte che si vorrebbe ricostruire d'urgenza al posto del viadotto Morandi tragicamente crollato a Genova. Se ne sono già dette di tutti i colori su quelle idee oggettivamente strampalate, dal punto di vista estetico, ma io vorrei modestamente aggiungere questa mia impressione: certe culture, la città la odiano proprio, la vorrebbero morta, puro spazio neutro per accogliere i propri scarabocchi, magari elegantissimi, ma non è quello il punto.

Ne La Città Conquistatrice qualche idea meno campata per aria sulla Progettazione Architettonica 

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