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Giovedì, 28 Marzo 2024
Città conquistatrice

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A cura di Fabrizio Bottini

Armi urbane improprie del terrorismo

Quando negli Stati Uniti si verifica una delle ormai periodiche immancabili stragi in uno spazio pubblico, perché qualche disturbato o frustrato decide di sfogare sull'umanità intera i fatti propri, giustamente la collettività inizia a discutere sul ruolo chiave delle armi da fuoco, perché innegabilmente sono quelle la chiave della strage. Spesso si viene accusati di non «vedere il vero problema» quando si prova a ridurlo ai minimi termini, ma si tratta di una accusa senza senso, dato che nessuno pretende che quei termini esauriscano la questione: solo, ne rappresentano davvero il centro nevralgico, e guardare altrove dimenticandoselo, alla ricerca di massimi sistemi più o meno politici, sociali, psicologici, fa perdere di vista il catalizzatore.

Che è, e resta, la strage, l'atto terroristico che colpisce gli esseri umani, il loro corpo, la loro sensibilità, i luoghi, le relazioni. Ergo fa benissimo chi, dopo che i proiettili sono usciti fumanti e micidiali dalla canna dell'arma da fuoco, prova a risalire quel filone di riflessione molto pratica, dato che senza l'arma da fuoco tutte le medesime grandi categorie si sarebbero espresse diversamente. In fondo, noi europei abituati a uno stretto controllo sociale e politico su quei tipi di armi, la cogliamo benissimo la faccenda: lo spostato, le sue frustrazioni, il montare della furia e i suoi motivi anche non solo psicologici, senza quell'arma si sarebbero espressi diversamente. Ma improvvisamente tutto sembra cambiare quando anche noi europei ci ritroviamo in una situazione per così dire «americana».

Americana nel senso che così come da quelle parti le armi si sono conquistate una banalità e legittimità impensabile su questa sponda dell'oceano, coi loro strenui difensori in quanto diritto individuale e simbolo di libertà intoccabile, anche noi finiamo per cadere nel medesimo equivoco semplicemente spostandoci su altre «armi», da quelle tipicamente domestiche raccattate in cucina per le manifestazioni di follia familiare, ai veicoli sempre più frequenti negli attacchi terroristici, facilissimamente trasformati in vere e proprie armi contundenti. E qui forse possiamo provare a fare il piccolo circoscritto ragionamento che ci interessa, senza alcuna pretesa di «affrontare il problema terrorismo», esattamente come chi negli Usa chiede controlli sulle armi da fuoco non si sogna di «affrontare il disagio sociale», ma semplicemente di provare a contenere i danni immediati, magari lasciando maggior respiro a politiche più organiche. Esistono strumenti adeguati e praticabili, per controllare la disponibilità di armi improprie?

Detta così pare una sciocchezza, perché come intuisce chiunque mica si può proibire ai negozi di casalinghi di vendere al primo cliente che passa un coltello per il pane, temendo che poi lo usi per sgozzare la zia che non vuole lasciargli l'eredità. Esistono però altri metodi, di per sé del tutto accettati e praticati, in grado di rendere sicuri dispositivi che di per sé lo sarebbero molto di meno, ed è una modifica di contesto: si va dai contenitori di sicurezza delle lame rotanti a motore (qualunque robot da cucina a cui non facciamo praticamente caso, è così), alle avvertenze o altri dispositivi che evitano a un innocuo giocattolo di trasformarsi in strumento di offesa per sé, nelle mani di bambini troppo piccoli, eccetera eccetera. Nel caso dei veicoli, logica vorrebbe che si pensasse a controlli elettronici sulla velocità raggiungibile in determinati ambienti, ma pare una prospettiva di lungo periodo, inapplicabile nell'immediato.

Che fare, subito ed efficacemente? In realtà basta guardare ai provvedimenti cosiddetti «di emergenza antiterrorismo» per capire: quelle barriere di calcestruzzo tipo New Jersey che spuntano minacciose in certi incroci strategici o accessi ad aree urbane. Corrispondono, alla lettera, al poliziotto che senza troppi complimenti ti fa consegnare l'arma prima di entrare in un posto dove sono vietate. Estendiamo il concetto, e avremo ottenuto la risposta: la migliore riduzione del danno da attacchi terroristici effettuati con veicoli, è una drastica riduzione della velocità, al di sotto della soglia in cui diventano armi di offesa. Non vogliamo chiamarle Ztl, perché ci suona offensivo nei confronti delle vittime e del grave problema? Cambiamogli nome, ma pensiamoci: si tratta, né più né meno, di quanto può cambiare completamente quell'aspetto del problema, e di sicuro influenzare molto anche tutto il resto.

Su La Città Conquistatrice il «solito» tag Sicurezza Urbana, dove i veicoli la fanno comunque da padrone

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