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Martedì, 23 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Attività urbane indispensabili: sopravvivere sostenibilmente

Ha immancabilmente sollevato qualche polemica (come succede ormai a tutto o quasi) la dichiarazione di questi giorni della Ministra dell'Agricoltura italiana quando sottolineava l'urgenza di regolarizzare finalmente i lavoratori delle nostre campagne. In fondo approfittava dell'occasione emergenza sanitaria per prendere due piccioni con una fava, da un lato quello sociale ed economico di lavoratori da sempre in condizioni assai precarie, dall'altro l'allineamento di mansioni essenziali e irrinunciabili come quelle produttive di alimenti alla base della filiera, ai criteri di sicurezza dal contagio, in una prospettiva di prevenzione ma anche di lungo periodo. Del resto lo sappiamo da sempre che «le campagne sono arretrate» da tanti punti di vista, e il miglioramento delle loro specifiche condizioni fa parte almeno dai tempi della Rivoluzione industriale e relativa urbanizzazione, di qualunque politica. Senza distinzioni particolari tra destra e sinistra salvo sfumature, se è vero come è vero che quando Lenin diceva «il socialismo è soviet più elettrificazione delle campagne» Mussolini ne sosteneva la modernizzazione con la Urbanistica Rurale per evitare le concentrazioni urbane operaie e conflittuali. Oggi però alle antiche dinamiche produttive sociali e politiche si aggiunge per le campagne un nuovo ruolo di gestione delle risorse naturali, soprattutto legato alla biodiversità: il sistema agro-industriale, dei pesticidi e fertilizzanti, delle macchine a combustibili fossili e del territorio ad esse conformato, la biodiversità letteralmente la uccide, costituendosi come «urbanizzazione impropria».

Che fare? Tra le risposte più recenti spicca certamente quella della vertical farm elaborata su queste premesse dall'agronomo Dickson Despommier: produzione alimentare urbana ad elevato contenuto tecnologico sviluppata su molti livelli in veri e propri grattacieli concepiti come piani sovrapposti di serre, usando le tecniche della idroponia e analoghe, degli ambienti controllati, delle energie da fonti rinnovabili come eolico o solare, in modo integrato. Se certamente l'idea è affascinante, le pur numerose sperimentazioni in corso ne stanno evidenziando parecchi problemi sia attuativi che di pura convivenza nel contesto della città, problemi tecnici, urbanistici, distributivi, produttivi e di mercato (immobiliare come alimentare). Il fatto è che la metropoli industriale cresciuta per circa due secoli privilegiando sostanzialmente l'aspetto della macchina artificiale rispetto a una autentica integrazione geografica-spaziale con l'ambiente, difficilmente può di colpo rivoltarsi come un calzino accettando quel corpo estraneo al proprio interno, occorrono alcuni passaggi intermedi, tra i quali risulta fondamentale una nuova idea di verde, tale da recuperare molti caratteri dell'antica campagna vera e propria, abbandonati in favore del ruolo sanitario, contemplativo, di tempo libero dei parchi, giardini, superfici non edificate varie. In gergo questa tendenziale «rete continua ecologica del non edificato» si chiama Infrastrutture Verdi, ed è dentro di esse che dovrebbe integrarsi sia quella delle vertical farm che dei tetti coltivati.

Una recente ricerca pubblicata il mese scorso dalla rivista specializzata Nature Food prova ad esaminare sistematicamente su un caso urbano attuale «Il potenziale nascosto dell'orticoltura urbana» ovvero la fonte immediata di prodotti freschi da tavola a chilometro zero così come già si configura senza far nulla di particolare, semplicemente considerando lo stato di fatto, e guardando in prospettiva a cosa se ne potrebbe ricavare pianificando in futuro ovviamente. Lo studio di un nutrito gruppo di ricercatori di varie Università e Dipartimenti parte dal presupposto che le aree urbane avrebbero un notevolissimo potenziale non sfruttato di produzione vegetale negli orti, la cui unica variabile sta nella effettiva disponibilità a tale scopo delle superfici adatte, mescolate al tessuto urbano, implicitamente fisico, funzionale, sociale. Lo studio empirico di caso conferma che di spazio ce ne sarebbe più che a sufficienza per soddisfare i bisogni della popolazione, e che dunque si tratta semplicemente (in realtà non molto semplicemente nella pratica) di porre le premesse giuste, per esempio nella pianificazione urbanistica e nel governo dello sviluppo socioeconomico locale. E per tornare alla questione da cui siamo partiti, della arretratezza delle campagne dal punto di vista della qualità del lavoro, è certo che una attività urbana, ad elevato contenuto tecnologico se non specificamente professionale, garantirebbe a chi la pratica livelli sia economici che contrattuali assai meno arretrati, oltre alle prestazioni ambientali sanitarie ed energetiche accennate sopra. Un tema che abbiamo già trattato e su cui certamente torneremo, emergenza sanitaria o no.

Riferimenti:
AA.VV. The hidden potential of urban horticulture, Nature Food, febbraio 2020
 

La Città Conquistatrice – Agricoltura Urbana (76 articoli)

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