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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Cambiare la società restringendo la carreggiata

Un articolo di un paio di anni fa su una rivista neozelandese, con toni e argomentazioni del tipo molto in voga al giorno d'oggi, sostiene che il Giappone, pur grande produttore e consumatore del bene durevole per eccellenza dell'ultimo secolo, l'automobile privata familiare, ne ha brillantemente risolto uno dei principali (se non il principale da molti punti di vista) problemi, il parcheggio, praticamente non facendo nulla e lasciando agire il libero mercato della domanda e dell'offerta di sosta. La narrazione dell'articolo praticamente mette in secondo piano, privilegiando legittimamente la propria tesi, parecchi aspetti che invece parrebbero centrali nella trattazione. Primo fra tutti il fatto che quell'idea positiva di «parcheggio come valore di scambio commerciale» è davvero nefasta, anche se apparentemente risolve alcuni problemi urbani e ambientali, oltre che di fiscalità generale. Ovvero, esattamente come accaduto con l'auto di proprietà, anche il parcheggio di proprietà inteso come accessorio, più o meno di lusso, diventa merce la cui crescita auspicabile per tutti si inserisce nel mainstream del cosiddetto sviluppo del territorio, aumentando e non diminuendo gli impatti negativi già ampiamente rilevati. Quale sarebbe invece il vero punto chiave che emerge dall'articolo? Lo si trova sparso qui e là negli incisi: il valore di merce rara del parcheggio sta nel tipo di organizzazione urbana, diversa da quella prevalente nei paesi occidentali: gli spazi della sosta non sono (quasi) mai luoghi di risulta, ma espressamente «costruiti» o dedicati, insomma una vera funzione che deve competere con altre. Da qui l'essere facilmente prezzabili e gestibili come tali.

Invece dalle parti nostre è accaduto per decenni l'esatto contrario, e in modo pubblico, pianificato, secondo una logica di diritto che ha molto di assurdo se ci pensiamo un istante. Le città si espandevano parallelamente al diffondersi dell'automobile, e quindi pareva abbastanza logico che assumessero in qualche forma e misura «struttura automobilistica», con due contraddizioni lampanti: le forme dei quartieri, la resistenza degli spazi storici pre-automobilistici. Partiamo da questi ultimi, dove l'assurdo forse salta più immediatamente all'occhio: i classici sventramenti igienico ferroviari ottocenteschi via via nel secolo successivo si fanno semplicemente più capillari, perdendo tutta la loro rilevanza originaria insieme al senso, solo per affermare il diritto dell'automobile a permeare di sé ogni luogo e anfratto, anche a costi urbani elevatissimi. In pratica si afferma un «diritto costituzionale» per cui chi insedia una funzione qualunque, residenziale o commerciale principalmente, dentro un tessuto storico, deve in qualche modo vedersi garantito un accesso corrente e diretto. E ciò avviene sia dedicando anche i vicoli più angusti a quello scopo, sia convertendo ampie porzioni di «spazio pubblico» alla sosta. Anche nelle zone di espansione e soprattutto suburbane la logica è identica, per quanto apparentemente più spontanea e «conseguente»: ignorando il criterio della comunità/vicinato già affermato nei progetti di sobborgo giardino, l'auto entra ovunque facendo letteralmente a pezzi qualunque criterio comunitario e di vicinato, e di nuovo lo fa affermando il «diritto» a possedere non solo un box a uno due tre posti per ogni alloggio, ma anche piazzole di sosta per ogni quota di metri cubi edificati/abitante/utente, a loro volta duplicate per ogni altro luogo di frequenza/utenza.

È la scarsa considerazione di quel diritto nello specifico citato spazio fisico e normativo giapponese, che ha fatto diventare il parcheggio merce rara e relativamente costosa. E quindi se volessimo osservare la questione da un punto di vista diverso da quello della merce, dello scambio, del profitto che tutto risolve con la Mano Invisibile del Mercato, a cosa guarderemmo? Proprio a quel «diritto di accesso» che in realtà non ha nulla a che spartire con una idea di terra di nessuno, ma in realtà si potrebbe declinare in progetti (sia edilizio urbanistici che infrastrutturali) tesi davvero a garantire l'accessibilità, la mobilità, i trasporti di merci e persone tra i luoghi. Ma non a stabilire che la vita esiste solo se accompagnata a una appendice automobilistica. Chi costruisce o acquista un immobile deve accettare che non esistano affatto «standard automobilistici minimi» come avviene oggi: uno spazio è abitabile se non ci piove dentro, garantisce sicurezza, è comodo. Quella abitabilità non deve dipendere da quanto vicino posso arrivarci con l'auto privata e parcheggiarla, come avviene oggi. Una filosofia del genere certo non è facile da far accettare a una società cresciuta per decenni dentro la logica dell'auto status symbol di mobilità, modernità, affermazione sociale individuale e collettiva. Ma chi ha provato a sperimentare semplicemente stili di vita diversi (nulla a che vedere col «rinunciare all'automobile» peraltro) sa che si tratta di un notevole passo avanti, e non certo di una caduta verso l'età della pietra.

La Città Conquistatrice – Se vuoi il parcheggio te lo compri

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