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Sabato, 20 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La città di L.U.L.U.

Negli Stati Uniti procede a passo abbastanza spedito la legalizzazione della marijuana, sia a uso medico che (più raramente per adesso) ricreativo. E come in tutti i processi di emersione di qualche fenomeno socioeconomico complesso, emergono le sorprese. La principale di queste sorprese a ben vedere non è davvero una sorpresa, se si pensa al lunghissimo periodo in cui tutto ciò che riguardava la canapa è stato relegato sotto il tappeto: esiste una terribile diffidenza, da parte di cittadini e istituzioni. E non aiuta certo in questo senso il consenso bi-partisan di progressisti e conservatori, che hanno trovato un punto d'incontro nell'abituale approccio contabile che pervade ormai ogni problema: la repressione costa, il rapporto costi benefici della legalizzazione è straordinariamente favorevole, si creano posti di lavoro eccetera eccetera. Ma insieme alla cenere sotto il tappeto covava anche la brace della diffidenza.

Ovvero marijuana uguale oppio dei popoli, strumento del demonio, sostanza che trascina chiunque automaticamente verso il male, qualunque sia il canale attraverso cui se ne entra in rapporto. La rivista scientifica ufficiale degli urbanisti, Journal of the American Planning Association, ha pubblicato sull'ultimo numero un articolo dal titolo emblematico: “Il rompicapo della marijuana”, dove nello stile sistematico del giornale vengono passate in rassegna tutte le politiche locali e cittadine varate sinora riguardo alle autorizzazioni di punti vendita della canapa e derivati. Pur nella vasta e articolata serie di scelte specifiche urbanistiche dei vari comuni e altre autorità preposte, i due autori dell'articolo Jeremy Németh e Eric Ross, dell'Università del Colorado, arrivano a individuare una tendenza: gli spacci di prodotti a base di canapa sono più o meno collocati nelle norme urbanistiche e autorizzative nella categoria LULU. Nomignolo che suona carino e simpatico, ma è l'acronimo di Locally Unwanted Land Use, funzione sgradevole e tendenzialmente pericolosa.

Per intenderci, le attività LULU vanno dalle discariche, agli inceneritori, fino ai negozi di liquori o locali di spogliarello e lapdance. Il genere di cose che il senso comune preferisce di gran lunga lontano da casa propria, dal quartiere rispettabile in cui sta la casa, dalle scuole che frequentano i ragazzi, e in generale fuori dalla vista. Il metodo classico per gestire una funzione sgradita, ma non eliminabile, è quello di segregarla, e qui iniziano le contraddizioni in seno al popolo. Perché la segregazione in genere prima o poi si rivela per quel che è sempre stata: una non soluzione, uno spazzare sotto il tappeto la sporcizia invece di prevenirla, accettarla, metabolizzarla. Da sempre in urbanistica segregare vuol dire solo rinviare i problemi e incancrenirli, si trova un posto appartato e ci si cacciano dentro odori, rumori, forme, persone, attività non accettate, magari mescolandole in un minestrone assurdo dove fianco a fianco convivono un impianto fracassone o che crea troppo traffico (diciamo il centro gestione separata rifiuti), una funzione residenziale socialmente sensibile (diciamo il centro accoglienza immigrati o simili), una attività moralmente imbarazzante (il locale topless).

Abbastanza scontato che, poi quel minestrone a sua volta crei altri scompensi e guai, perché la convivenza è una cosa seria, mentre le nostre classificazioni pregiudiziali lo sono molto meno. E non è finita, perché allontanare tutte le varie LULU dalla città vuol dire costruire in campo aperto, consumare campagna, e in fondo non badare affatto agli effetti ambientali, che tanto si ripercuotono solo lì attorno. Oppure, se non si consumano nuovi spazi (magari perché non ce ne sono a disposizione) si va a cacciare gli obbrobri ambientali sociali o morali dove la gente protesta di meno, o ha una voce più debole. E qui si apre un capitolo del tutto nuovo, perché i posti sono, come vi potete immaginare, i quartieri popolari, dove la gente di solito abita perché una graduatoria pubblica l'ha messa lì, mica per propria scelta. Così il centro per la spazzatura, o il negozio della marijuana, o la fabbrica dai fumi di dubbia salubrità, diventano ingiustizia ambientale. Si potrebbe andare avanti a lungo, e forse si tratta di un tema da riprendere più avanti nel tempo, ma una cosa è certa: hanno un po' ragione quelli che dicono con la canapa si aprono nuovi orizzonti di conoscenza! Basta cercare di capire cosa stiamo maneggiando, invece di nasconderlo sotto il tappeto.

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