State a casa. Ma quale casa?
L'indicazione generale del governo italiano per l'emergenza pandemia ed evitare al massimo qualunque probabilità di contagio è notoriamente perentoriamente: STATE A CASA! A cui abbastanza ovviamente seguono una serie di specificazioni sulla relatività del limite, e riguardanti alcuni obblighi, funzioni, elasticità. Vorrei qui provare idealmente ad allargare il concetto di casa, non tanto per inventarmi una personalissima infondata e ridicola versione dei decreti governativi sull'emergenza, né per interpretarli forzosamente più del lecito. Ma solo per inquadrare in un orizzonte diverso insieme sia la norma che l'eccezione del comportamento cautelativo anti contagio, ovvero entro la famiglia allargata della piccola comunità di vicinato. Le stessa comunità che in tanti hanno letteralmente scoperto o intuito da tantissimi inauditi segnali negli ultimi giorni, per esempio coi flashmob della musica dai balconi e come ha osservato qualcuno «vicini che per la prima volta in vita loro si guardavano in faccia e si sorridevano o si riconoscevano come tali». Cosa sia però questa casa allargata della famiglia allargata che chiamiamo convenzionalmente quartiere, o comunità, o in termini urbanistici unità di vicinato, non appare però chiarissimo, e forse val la pena tornarci.
Se parliamo di Neighborhood Unit a chi «ne capisce», di solito si evoca automaticamente una serie di quantità e indicazioni formali architettoniche: quanti abitanti anche se le cifre possono variare, quale tipo di case e aggregazioni (per giunta di solito coordinate e con una partecipazione pubblica importante, nella realizzazione e/o nella proprietà degli immobili), quali funzioni prevalenti e tipo di abitanti. Certo anche il più schematico dei nostri interlocutori non resterà certo inchiodato ai pochi modelli ideali per esempio dei nostri villaggi INA-Casa degli anni '50, o di qualche new town britannica, o quartieri periferici modello oltreoceano a cavallo dell'ultima guerra. Perché le interpretazioni nel corso dei decenni sono state tantissime e diversificate, allargando il campo e stiracchiando alcuni fattori in una direzione o nell'altra. Sta di fatto però che quel modello comunitario identitario architettonico e funzionale continua a muoversi dentro le medesime varianti «di progetto», così come le ha proposte in linea di massima negli anni '20 del secolo scorso il titolare del copyright ufficiale, il sociologo newyorchese Clarence Perry. Il quale però attingeva abbondantemente a fonti precedenti a cui proveremo qui a fare riferimento anche noi per i nostri scopi.
Non solo il nome Neighborhood Unit, è preso a prestito da Perry dal progetto presentato con quel nome per un «quartiere ideale» a Chicago nel 1914 dall'architetto William Drummond, quando lo stesso sociologo newyorchese nella Città del Vento faceva le sue ricerche sul ruolo urbano e sociale delle scuole. Anche alcuni studi della locale scuola ecologica, quelli coordinati da Robert E. Park, negli stessi anni riannodavano alcuni bandoli della matassa aggrovigliata dell'urbanizzazione industriale: il mondo delle comunità immigrate nella grande città moderna, oltre a conservare ferocemente e gelosamente i legami familiari trasferisce anche nel nuovo tessuto spaziale e funzionale (spontaneo o preesistente o di mercato che sia) anche quelli della comunità. Iniziando a trasformare per interazione l'uno e l'altro, ed è questo l'aspetto forse più interessante degli studi sociologico-ecologici di Chicago (che a loro volta prendono a prestito dalla Germania industriale) e di quelli del giovane Perry sul ruolo delle scuole nei quartieri. La nuova comunità nella metropoli che impara a conoscersi, riconoscersi, in qualche modo rispettarsi nella diversità, a fare da camera di decompressione tra la famiglia e la società. E il suo spazio di riferimento a svolgere, ad assetto variabile, le medesime funzioni. La stessa cosa che abbiamo avvertito e vagamente intuito nei flashmob dai balconi, e che forse sarebbe da ripensare.