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Venerdì, 29 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La gentrification abbassa la resilienza

La resilienza di un sistema cresce al crescere della sua complessità, e questo è sostanzialmente il motivo per cui in genere in qualunque programma di rigenerazione e riqualificazione urbana (le due definizioni, per inciso, significano due cose diverse) si cerca di evitare che un aspetto funzionale prevalga troppo sull'altro, formando piccoli e magari a loro modo autosufficienti ghetti residenziali, o amministrativi, o quantomeno spazi troppo dominati da un solo soggetto. Perché si finirebbe per riprodurre, magari investendo molte risorse e aspettative pubbliche, esattamente le premesse di fragilità che quel bisogno di riqualificazione o rigenerazione hanno prodotto, innanzitutto. Ma si tratta di un rischio sempre in agguato, soprattutto al giorno d'oggi quando in un modo o nell'altro si finisce per riporre fiducia totale nei meccanismi del mercato, specie del tipo in cui appare positiva praticamente qualunque forma di creazione di valore, nella certezza che poi la ricchezza finirà per permeare il quartiere.

Accade così che quella «resilienza della complessità», che è caratteristica invece delle zone urbane sedimentate, venga cancellata artificialmente da chi scaraventa su una zona pochi o uno solo complessi di uffici, o attività commerciali, o residenze rivolte a un unico tipo di fascia sociale. Vale per tutti, i progetti, questa osservazione, che si tratti di attività produttive in grado di garantire occupazione operaia o analoga, o direzionali rivolte a lavori «alti», o magari addirittura case economiche e popolari, concepite con le migliori intenzioni, ma destinate a modo loro a «desertificare il luogo». Ma certamente il processo più noto, odioso, temuto oggi, è quello della gentrificazione, che pure in tanti provano da ogni lato a rivenderci come panacea di tutti i mali, dato che aumentando la ricchezza lorda del quartiere sarebbe comunque un contributo di miglioria. Ma se proviamo a leggerla con un minimo di prospettiva critica, vediamo che non è affatto così.

Immaginiamo uno dei tantissimi casi del genere, dove un operatore edilizio, o vari agenti immobiliari o indipendenti proprietari-residenti sparsi, iniziano a investire le proprie aspettative in un quartiere «degradato», convinti prima o poi di rigenerarlo. Siamo ancora alla fase iniziale, si badi bene, e tutte le possibilità sono aperte, ma di solito se ne verifica una, sempre la stessa, ovvero: gli investimenti vengono convogliati sul valore complessivo degli edifici. Accade nel caso di demolizioni e ricostruzioni, ovviamente, ma accade anche su tempi medi se i vecchi edifici in affitto vengono ristrutturati e trasformati in condomini borghesi, e poi le botteghe al pianterreno destinate ad altre funzioni magari sempre commerciali, ma rivolte a mercati diversi da quelli di prima. Insomma, si è pensato solo al settore immobiliare, come se fosse quello, l'anima della città, cacciando via invece popolazione, attività, aspettative che non corrispondevano alla valorizzazione. Quella si classifica come gentrification, abbassa la resilienza, ammazza la vitalità, desertifica i quartieri e ne prepara in qualche modo una crisi. E sta qui anche la differenza tra riqualificazione (che è cosa da geometri e capomastri) e rigenerazione, che è invece cosa di carattere sociale, politico, economico, e magari non richiede neppure di intervenire direttamente nella «città delle pietre». Ma non raccontatelo ai nostri politici conservatori, che a quanto pare hanno sempre in mente le gru e le betoniere come immagine di progresso: poveracci!

Per una volta un link internazionale:
Sidh Sintusingha, When a suburb’s turn for gentrification comes … The Conversation, 3 maggio 2017 

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