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Giovedì, 25 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Non ci vuole un Progetto Grande, ma un Grande Progetto

Qualche giorno fa, prima del micidiale abbattersi di un ennesimo disastro urbanistico-ambientale su Genova, i giornali parlavano di quella città a proposito di un grande progetto di trasformazione firmato Renzo Piano. Il celebre architetto genovese firmava quello che appare, da una rapida occhiata ai disegni pubblicati, un giochetto da bambini sulla spiaggia: si scava qui, si trasporta la sabbia di là, si svuota, si riempie, e si trasforma il paesaggio. Certo chiunque poteva cogliere pur vagamente le implicazioni per nulla fanciullesche di quel gioco tra vuoti e pieni, come poi si confermava leggendo delle vibrate proteste di chi davanti all'ipotesi di vedersi letteralmente togliere la terra da sotto i piedi minacciava sfracelli legali. Pare il minimo. Adesso, ascoltando le polemiche sul disastro annunciato, o le meste constatazioni del capo della protezione civile sul fatto che in fondo le grandi opere idrauliche non sono la priorità, torna comunque in mente la grande forza comunicativa di quell'idea di svuotare e riempire.

Cosa aveva saputo fare in buona sostanza l'archistar, maestro come tanti suoi colleghi nel mondo di sintesi grafica e non solo? In pratica, ci restituiva in forma semplicissima ciò che certo semplicissimo non è, ovvero prima trovare collocazione alternativa efficiente e accettabile a tutto ciò che ora sta in quel grande spazio, poi gestire le risorse presumibilmente non infinite disponibili per effettuare le grandi trasformazioni, poi infine costruire sommando progetti piccoli, medi, anche microscopici, un sistema integrato di alta qualità, il più possibile simile a quanto compare nei cosiddetti rendering. Un metodo inventato a cavallo fra XIX e XX secolo, quando l'architetto manager Daniel Burnham ingaggiava un vero e proprio pittore di vedute per coinvolgere la città nel suo ciclopico Piano di Chicago del 1909. Ancora oggi, di quel piano anche nei corsi universitari di architettura e urbanistica non si studiano tanto il sistema di riorganizzazione delle stazioni ferroviarie, o dei parchi sul lungolago, e neppure il progetto di totale ricostruzione del centro terziario commerciale. Parlate a qualsiasi architetto del piano di Chicago, e lui ricorderà una di quelle vedute vagamente impressioniste.

Una delle frasi famose di Burnham suona più o meno: “Non fate piccoli progetti, quelli non rimescolano il sangue nelle vene della gente”. Difficile dargli torto, e difficile non pensare all'abilità con cui tanti, troppi, usando un metodo esattamente identico da molti anni ci rimescolano il sangue nelle vene a proprio uso e consumo, evocando il nostro consenso (o almeno quello della maggioranza) per proprio progetti particolari, senza che la legittima opposizione riesca a far altro che urlare, di solito senza risultati degni di nota, il proprio sdegno. In questi giorni, fra i vari pacchetti di provvedimenti del governo per rilanciare l'economia c'è il cosiddetto decreto Sblocca-Italia, che appartiene alla medesima famiglia del “fare”, del rimescolare il sangue nelle vene in vista dell'azione insomma, e che innesca un meccanismo identico. Dove a ben vedere, però, il governo gioca il ruolo propositivo e propulsivo di Renzo Piano, e gli oppositori quello di chi resiste per mantenere lo status quo, o quantomeno migliorare le cose senza cambiar molto. Da un lato un'idea di trasformazione, per quanto semplificata sino all'estremo e che non racconta affatto i dettagli, dall'altro un'idea di conservazione, ripristino, miglioramento nella continuità, forzatamente dispersa nei mille rivoli dei particolari su cui si intende insistere. La sintesi contro il dettaglio.

rottama italia-2Altreconomia ha pubblicato sul proprio sito una articolatissima antologia “unitaria” di queste obiezioni al decreto governativo, dal titolo Rottama Italia, scaricabile liberamente e gratuitamente. Hanno collaborato alla raccolta, curata dallo storico dell'arte Tomaso Montanari, alcuni intellettuali ben noti per le loro battaglie in difesa del territorio, del paesaggio, delle città dall'invadenza recente e meno recente delle grandi opere, dell'asfalto e del cemento spesso fini a se stessi, di trasformazioni utili semplicemente a innescare investimenti. Ci raccontano, ognuno col proprio stile e focalizzazione, quanto dilettantismo ambientale, quanto egoismo arraffone, spesso anche quanta pura illegalità o peggio incostituzionalità, stiano annidati dentro l'enfasi sul rimboccarsi le maniche per rilanciare l'economia del paese attraverso edilizia, infrastrutture, reti. Tornano le descrizioni di scempi passati, e a volte di battaglie vittoriose contro programmi che avrebbero potuto fare danni peggiori, se non fossero stati bloccati. Sicuramente una chiamata alle armi per il mondo della associazioni, dei comitati, di tutti coloro che in un modo o nell'altro sono, o si ritengono, i guardiani della città e del territorio come casa dei cittadini, e non come riserva di caccia per i grandi interessi. Ma aleggia non visto il fantasma di Daniel Burnham, che pare chiedere da dietro i suoi folti baffi: “Ma le vostre esortazioni rimescolano il sangue nelle vene della gente, oppure no?”.

Una bella domanda, a cui è possibile rispondere sia sì che no. Le argomentazioni degli intellettuali conservazionisti e ambientalisti certamente cascano molto bene nel campo della militanza, delle associazioni, dei comitati, ricompattano e ri-motivano insomma le opposizioni culturali e politiche a un certo modello di sviluppo territoriale che ben conosciamo nelle sue manifestazioni peggiori da molti anni. Al tempo stesso, però, l'instant book di Altreconomia probabilmente non riesce a parlare a un altro mondo, a chi semplificando al massimo era stato interessato a quegli schizzi del progetto di Piano per Genova, o a tante altre idee di trasformazione che ci propongono ogni giorno i giornali e la rete. L'antologia curata da Montanari, certamente, sottende un Grande Progetto, definito dalla somma delle proposte settoriali e locali alternative al modello business as usual di Sblocca Italia, ma la narrazione frammentata non si avvicina neppure all'efficacia comunicativa dei progettoni facilmente schematizzati a cui ci ha per esempio abituato il ventennio berlusconiano. Ma fare opposizione a un modello, significa anche disprezzarne le capacità comunicative? Il fronte di opposizione in fondo già oggi esprime una ricca narrazione in positivo di progetti e proposte, di solito locali, come quelle raccontate da Marco Boschini, o da Domenico Finiguerra. Il quale Finiguerra però, nel caso specifico del contributo al libro, ha significativamente optato per l'approccio di opposizione e denuncia maggioritario. Un bel dilemma, insomma, questo del Grande Progetto Alternativo, a cui gli sparsi accenni alla somma di piccoli progetti non paiono trovare, almeno sul versante comunicativo e di ricerca del consenso, alcuna soluzione. Discutiamone.

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