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Sabato, 20 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Idiotismo della vita urbana no grazie

La nascente sociologia urbana verso la fine del XIX secolo iniziava a studiare il fenomeno del reinsediamento a carattere etnico o più misto (ma di solito con omogeneità di classe) delle famiglie contadine trasferite individualmente o in massa dentro il perimetro urbano alla ricerca di migliori condizioni di reddito rispetto a quelle delle campagne. Perché tra i principali disagi indotti dall'ambiente urbano-metropolitano, oltre a quelli fisico-sanitari così ben descritti dal riformismo ottocentesco o dal reportage di Engels testimone dei quartieri operai della sua Manchester, spiccava lo «spaesamento percettivo» a privare di identità e relazioni prevedibili strati tanto ampi di popolazione al punto da trasformarla in una massa amorfa e potenzialmente eversiva. Ma spontaneamente, dentro interstizi più o meno ampi lasciati a disposizione dalla macchina capitalistico-industriale su cui si plasmava la città moderna, iniziavano a nascere, o meglio rinascere, versioni modificate del perduto villaggio di campagna. Certo materialmente e necessariamente diverso nelle componenti edilizie, nell'organizzazione ed equilibrio dello spazio pubblico-privato, in parte anche nelle gerarchie sociali e di potere, quel villaggio riproduceva però tante relazioni, aspirazioni, intrecci, che evidentemente continuavano a stare a cuore agli abitanti ex affetti da «idiotismo della vita rustica» anche dopo generazioni di sradicamento.

Più avanti, nel primi decenni del '900, movimenti sociali e ricerca scientifica iniziavano al tempo stesso a plasmare e definire in nuove forme quel villaggio spontaneo, conferendogli anche maggiore articolazione e adeguamento effettivo al nuovo contesto della città borghese-operaia, e anche a superare la logica del ghetto-fortilizio di classe o etnia che quell'accampamento aveva finito per assumere. Si studiavano le nuove relazioni, interne e con l'esterno, che quel particolare distretto aveva finito per sviluppare allontanandosi sia dal modello teorico della città che da quello storico del villaggio rurale. Si studiavano anche gli intrecci di relazioni tra lo spazio fisico e le relazioni sociali, iniziando per esempio a notare come anche oltre l'appartenenza o identità esistesse un ruolo focale di alcuni luoghi di servizio (fosse commerciale o civico o associativo) in grado di fungere da calamita e unificatore per un certo ambito. Studiando le scuole di Chicago adibite anche a funzioni non strettamente scolastiche, un sociologo che non era di quella città (quindi più propenso a non dare per scontate alcune cose) notò la presenza rilevabile di un «raggio di azione» entro il quale gli utenti erano disponibili a muoversi anche quotidianamente, e fuori dal quale iniziavano ad agire altre diverse forze: era nata l'idea base della cosiddetta Unità di Vicinato.

Ovvero schematicamente: su quale distanza spontaneamente sarei disponibile a spostarmi preferibilmente per fruire di tutto quanto domestico non è ma è complementare all'abitazione. In un primo tempo, anche nella nascente logica dello Zoning Monofunzionale (che si afferma contemporaneamente ma parallelamente alla Neighborhood Unit) il quartiere viene concepito, sia dagli architetti che dai sociologi, come una specie di casa-nursery allargata fatta di genitori, figli, insegnanti della scuola-punto focale, e altri operatori di servizi indispensabili come qualche bottega alimentare d'angolo o poco più. Un modello che, congelato sociologicamente dagli architetti interessati solo a faccende formali o di qualità dell'alloggio, durerà artificialmente ben oltre la segregazione funzionale in cui era nato, fino alla ricostruzione post bellica e quasi a fine '900. Ma in molti casi ricerche e sperimentazioni pur con significati e prospettive diverse continuavano a lavorare su quell'idea di «raggio di azione spontaneo», penultimo arrivato ad esempio il cosiddetto Transit Oriented Development che mescola residenze commercio e posti di lavoro attorno al fuoco della fermata del mezzo pubblico preferibilmente su rotaia.

E veniamo all'ultimo nato, emerso con lo stimolo della pandemia ma che già fluttuava nell'aria da tempo, la cosiddetta «Città dei Quindici Minuti» ovvero mosaico di raggi d'azione e influenza di molti fulcri (specializzati e non) tali da ridurre al minimo la necessità di spostamento veicolare. Che come si capisce non è né un progetto da architetti (ma di insediamento e organizzazione di servizi vari), né una riedizione nostalgica e da cartolina del villaggio rurale o borgo ancestrale completo di scemi del villaggio che non capiscono un tubo. Come chi ne ha dato proprio questa interpretazione unendola a una pessima riedizione di «idiotismo della vita rustica» reinterpretato come chiusura a ghetto dentro la nursery materna ma oppressiva di un vicinato coatto da cui qualunque spirito urbano non vede l'ora di scappare. E se ne sono lette parecchie di sciocchezze del genere a proposito della Città dei Quindici Minuti recentemente. O quanto meno che a strabismi del genere facevano automaticamente pensare. Non vorremmo che la nostra politica si facesse troppo condizionare da idee al tempo stesso ignoranti e autoritarie, non dissimili da chi durante la pandemia ha sviluppato quel balzano concetto di società come corsia d'ospedale dove decide tutto il primario e gli altri subiscono chinando il capo.

Riferimenti:

Walter Veltroni, Una città dove tutto è più vicino, Corriere della Sera 10 agosto 2021 

La Città Conquistatrice: Unità di Vicinato

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