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Giovedì, 28 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La città del social network

Si discute da diversi anni della figura di Jane Jacobs, e come capita con tutte le personalità e riflessioni che hanno avuto un lungo e forte impatto culturale si finisce per fare parecchia confusione, essenzialmente fra quel che diceva, e quel che in seguito hanno detto e fatto i suoi "allievi". La cosa che rende ancora più complicato capire, è che queste miriadi di "allievi" non sono mai stati tali: la signora Jacobs non si è mai sognata di fare la maestrina, al massimo l'allieva rompiscatole che dall'ultimo banco solleva sempre la mano e con vago tono petulante attacca "... io però non ho capito perché dobbiamo sempre fare così, quando per esempio". Era una segretaria nella redazione di una rivista di architettura, e naturalmente donna di casa pratica, quindi per lavoro per caso e per curiosità personale le capitava di notare la differenza (la grossa differenza) tra le grandi intenzioni dei progettisti (o degli amministratori, o dei costruttori) e la realtà che si veniva a realizzare. Andava a curare l'intervista col grosso papavero delle decisioni urbane, vedeva i plastici e le tavole dei progetti, ma poi uscita dallo studio camminava per strada, e di tutte quelle grandi intenzioni grandiose notava come non restasse quasi nulla: spazi vuoti, o già degradati da nuovi, o che la gente evitava per la diffidenza spontanea suscitata. Insomma chi decideva lo faceva senza considerare nel modo giusto i bisogni di chi quelle decisioni le subiva. C'era un problema.

D'altra parte la signora non aveva alcuna cultura, né di progetto, né di critica sistematica per intravederne un altro: sapeva cogliere quel che non funzionava, sapeva farlo molto bene e puntualmente, ma quando si trattava di trovare un'alternativa di metodo era a secco di idee. Quelle idee le vennero guardando dalla finestra mentre sbrigava le faccende di casa, oppure andando in bicicletta tutti i giorni al lavoro (attraversava un pezzo di Manhattan, dal Greenwich Village a Midtown). Negli ambienti vivi e abitati che notava, c'erano una serie di qualità introvabili nei grandi progettoni edilizi, stradali, di piazze metafisiche e vuote: c'era il modo in cui le persone si adattavano facilmente e spontaneamente a quei luoghi, nati e cresciuti attorno a loro. C'erano i cosiddetti occhi sulla strada a garantire la sicurezza, perché sapevano distinguere ciò che in quel posto è normale, da ciò che non lo è, e entrare automaticamente in preallarme. C'era, a sostenere quegli occhi sulla strada, la cosiddetta danza del marciapiede, dove in una coreografia spontanea tutti gli attori della commedia urbana si alternavano nei loro ruoli, dal commerciante al passante al pendolare all'abitante del piano di sopra. Tutto bellissimo, tutto verificabile, tutto apprezzabile, ma resta la domanda: e il metodo?

Il metodo, decisero poi in tanti negli anni successivi alla pubblicazione del famoso studio "La vita e la morte delle grandi città", era di riprodurre quel tipo di spazi, in fondo tanto simile ai quartieri storici, e diversissimo invece dalla città-macchina della cultura architettonica razionalista dominante del '900, mescolata con la tecnica automobilistica e autostradale. Ma non era affatto un metodo, come del resto capiva anche la stessa signora Jane Jacobs, che per decenni cercò di sviluppare meglio e in altre personali ricerche quella prima intuizione, ma senza ripeterne l'exploit di successo: le mancavano in fondo gli strumenti. Oggi, si organizzano delle "Jane's Walk" in suo nome nelle città, con l'idea che guardando gli spazi tradizionali i cittadini si possano fare un'idea di quel che vogliono, e pretenderla poi dalla politica, anzi sostituirsi direttamente a chi prende le decisioni. Un'idea di città da social network, in pratica, in cui ognuno guardando dalla sua soggettiva "finestra del tinello" nota quel che non va o semplicemente non gli piace, e poi in modo estemporaneo si costruisce una speculare idea di alternativa. Magari con spunti ottimi, ma che ha bisogno di molto di più per diventare tale. Come ci insegnano tante altre vicende fallite di partecipazione più o meno assembleare, di sicuro è meglio non fidarsi del software, e provare sempre a migliorarlo, un po' per volta.

Su La Città Conquistatrice qualche articolo prova a sviluppare il tema della partecipazione urbana e delle intuizioni di Jane Jacobs

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