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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

L’urbanistica è politica

Aprendo il primo congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica nel 1937, l’intellettuale di fronda fascista Giuseppe Bottai non poteva mancare di sottolineare sino a che punto ragionare sulle pietre della «urbs» come facevano da qualche lustro con continuità gli architetti, fosse al tempo stesso espressione altissima delle raffinate forme di convivenza che chiamiamo «polis». E del resto ben si intuiva già allora quanto le monumentali prospettive dei concorsi di piano regolatore potessero valutarsi anche e soprattutto come celebrazioni del potere, politico ed economico, locale o non, del regime e dei suoi interpreti e sodali. E ancora lo strettissimo intreccio fra i due aspetti dell’organizzazione fisica e dell’esercizio del potere doveva riemergere, addirittura rafforzato e più evidente nel dopoguerra repubblicano e democratico, quando vuoi per il boom economico, vuoi per la maggiore articolazione istituzionale e delle autonomie locali, si capiva sino a che punto la società cercava in ogni modo di plasmarsi uno spazio a immagine e somiglianza, certamente contraddittorio ma innegabilmente coerente.

Mancava ancora un tassello, ed era quello della partecipazione diffusa, che il fascismo aveva cercato di incanalare a modo suo nelle «corporazioni» professionali o assimilate,  e che ora diventava invece più liberamente disponibile. Mi riferisco qui al tipo di partecipazione spontanea che oggi definiremmo di quartiere, o magari sprezzantemente nimby, ben diverso da quello tipico degli interessi costituiti, dei proprietari, degli operatori. Chiamiamola partecipazione dei cittadini, per semplicità, così come emerse in modo molto vistoso e avanzato per esempio coi progetti di rinnovo urbano nelle grandi città Usa, pensati da architetti sulla base di criteri molto avanzati tecnicamente, molto rudimentali sul versante della partecipazione dei cittadini, praticamente non messa in conto. Ne nacquero le note teorie di Jane Jacobs, ancora oggi molto quotate in tutto o in parte. Ma non vanno dimenticate altre forme altrettanto importanti di contributi della «politica» non istituzionale alle grandi trasformazioni delle città, in Italia per esempio le inchieste sistematiche sulla soddisfazione degli inquilini nei quartieri de piano Fanfani-Ina-Casa, che come oltreoceano stigmatizzavano la distanza fra certe spericolate sperimentazioni spaziali e le loro cavie.

In questi giorni a Milano, su iniziativa dell’ex candidato sindaco ed ex assessore alla cultura, l’architetto Stefano Boeri, si sono svolte le iniziative dei «tavoli tematici con sei percorsi sulla Milano che sarà nel 2030: città, amore, corpo, comunicazione, educazione, impresa, per far incontrare la generazione di domani con le personalità della Milano che conta di oggi. Confronti e proposte che hanno tratteggiato la città del futuro vista dagli under 25» (da la Repubblica locale). Insomma i giovani, giovani piuttosto qualificati e probabilmente auto-selezionati in quanto futura classe dirigente, intraprendono un percorso politicamente non proprio canonico, extraistituzionale, che potremmo definire di post-urbanistica e anche post-partitico. In cui sono evidenti sia alcune analogie con la classica partecipazione democratica dei cittadini dal dopoguerra in poi, sia pur in forma rinnovata trasparente e aperta, i tipi di istanze professionali e «corporative» di settore che abbiamo visto nel periodo tra le due guerre. Un percorso interessante, questo, che risponde anche in modo innovativo a quell’idea allargata di «smart city» non certo solo tecnologica, ma aperta a recepire ogni forma di innovazione urbana, ambientale, sociale, e appunto partecipativa.

Su La Città Conquistatrice, molti articoli sul ruolo possibile della Smart City contemporanea

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