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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La città schizofrenica della finta partecipazione

La nascita della cosiddetta «urbanistica partecipata» moderna si può datare più o meno all'alba del '900, quando un gruppo di benintenzionati gentiluomini americani, in marsina e basettoni d'ordinanza, promuoveva la pubblicazione del sussidiario di letture ed esercizi per scuole medie modestamente intitolato «Municipal Economy». Fiduciosi nell'inarrestabile progresso dell'umanità (il macello della Prima Guerra mondiale con dispiego letale delle tecnologie era ancora di là da venire) quei signori, già co-autori di un gigantesco piano urbanistico consistente in sostanza di fascinosi spunti grafici e tecnici, tutti ancora da sviluppare sul campo, ne affidavano la costruzione materiale ai posteri. E quale migliore viatico, di una specie di abbecedario delle città nella storia, come era quel Municipal Economy, piccolo manuale di urbanistica, saggia amministrazione domestica, estetica urbana per famiglie? I giovani cresciuti con quella lettura, si immaginava, avrebbero poi saputo fare le scelte migliori quando se ne sarebbe presentata l'occasione: la ferrovia, le stazioni, le strade, i parchi, gli edifici di rappresentanza, i quartieri borghesi e popolari, le altre fantastiche conquiste della scienza e della tecnologia, tutto avrebbe trovato il migliore posto nella città del futuro, grazie a cittadini consapevoli e «formati alla disciplina urbanistica» già dalle scuole.

Nonostante il trauma sociale e culturale della guerra e dei suoi macelli nelle trincee, resta comunque viva (e per fortuna direi) l'idea che il progresso possa essere adeguatamente imbrigliato e governato per costruire futuri giusti e luminosi, anche per quanto riguarda le trasformazioni urbane. Lo pensa nei primi anni '20 un giovane ma già grande urbanista come Patrick Abercrombie, che proprio a partire dall'esperienza bellica (il successo delle truppe che «sapevano leggere il territorio») propone di andare anche oltre quel manuale per le scuole medie, introducendo la materia urbanistica come studio obbligatorio in ogni scuola, per formare una specie di tecnico di massa. Progetto sfumato soprattutto per l'affermarsi, proprio negli anni '20 del secolo scorso, dell'esatto opposto di questo intellettuale urbano collettivo, ovvero dello specialista in piani regolatori e studi generali, figura che non a caso prende piede nell'epoca dei totalitarismi e delle democrazie decisioniste: dall'architetto integrale all'italiana, all'amministratore accorto delle scuole superiori francesi, allo sfaccettato planner anglosassone. Bisognerà arrivare alla ricostruzione dopo il successivo conflitto mondiale, per sentir riparlare di cittadini al centro, di partecipazione, di consapevolezza.

In tutto questo tira e molla, che per certi versi continua sino ai nostri giorni delle sessioni di quartiere o delle cosiddette «charrette» di progettazione collettiva, probabilmente si è perso di vista il vero scopo perseguito originariamente dagli autori di quel sussidiario all'alba del '900: volevano che tutta la popolazione si laureasse idealmente in progettazione urbana? Con tutta l'ingenuità che possiamo immaginare, in un pur economicamente scaltro Comitato di borghesi rampanti nella giungla d'affari della Chicago primo '900, è molto, molto improbabile che si immaginassero generazioni di figli e nipoti intenti a disegnare su qualche foglietto la forma preferita di alberi, panchine, altalene, facciate degli edifici, stazioni della metropolitana e via architettando. In fondo è solo quell'immediato «golpe progettuale» che negli anni '20 avoca a un gruppo ristretto di specialisti le decisioni sulle trasformazioni urbane, ad aver ispirato quell'idea, davvero stravagante, secondo cui il cittadino avrebbe chissà perché pieno diritto di «disegnarsi da solo» la città futura. Il vero diritto, quello sognato per secoli, altro che dall'alba del secolo scorso, è che i bisogni degli individui e dei gruppi siano espressi in forma chiara, esplicita, e recepiti in quanto tali da chi poi riesce ad elaborare risposte all'altezza. Forse dovrebbero rifletterci un po', sul tema, tutti quei teorici di «smart city» che invece paiono orientati a produrre delle specie di software di progetto collettivo, trasformando l'urbanistica partecipata in una specie di concorso permanente di architettura per bambini deficienti.

La Città Conquistatrice – Partecipazione

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