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Venerdì, 29 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La città suicida della destra xenofoba

In questi giorni si parla molto di immigrazione e convivenza, e pare prevalere almeno superficialmente un punto di vista di relativa chiusura, o quantomeno di timore, certamente indotto dal tam tam propagandistico della destra xenofoba. Nulla di nuovo, solo infinitamente amplificato e spudoratamente usato come strumento di propaganda e ricerca di consenso. La destra «popolare» dei nostri tempi di fatto nasce proprio da lì, dalla istintiva paura, o quantomeno spontanea diffidenza, per tutto ciò che è nuovo, inedito, pone problemi, richiede adattamenti e prospettive diverse. E cosa c’è di meglio dell’immigrato per incarnare al meglio l’intero campionario di queste cose, con l’aggiunta della quasi impossibilità di replica, almeno se si prende per buono il cosiddetto «senso comune»? Ma noi possiamo, almeno in teoria, provare a non prenderlo affatto per buono, anzi a chiamarlo col suo nome filosofico: il famoso «idiotismo» con cui Marx bollava gli abitanti dei distretti rurali strappati dal capitale industriale alle abitudini mortalmente sonnacchiose del loro analfabetismo allargato, e scaraventati nel volenti o nolenti dentro il melting pot della metropoli, che avrebbe restituito il nuovo conio della classe operaia.

Non tutti però hanno subito questa morte e resurrezione culturale, e molti hanno addirittura lottato per tornarci, all’amato idiotismo localista, del resto assai apprezzato da certo capitalismo novecentesco una volta capito il trucco. Ovvero, non c'era più alcun bisogno di concentrare nelle città grandi masse operaie, bastava portare i capannoni nelle campagne, e magari con qualche promessa di aria fresca e insalata dell’orto offrire alle famiglie anche una casetta realizzata su modello «tradizionale», sempre con la possibilità di togliere lavoro e casa a piacimento di solito. Non è un caso se proprio negli anni di maggiore aggressività di certo capitalismo autoritario, ovvero nel periodo tra le due guerre mondiali, si sviluppa al massimo la cultura antiurbana, magari alimentata anche dalla paura dei bombardamenti oltre che da quella degli scioperi organizzati e delle rivendicazioni. Gli anni successivi ci portano la dispersione urbana e la polverizzazione delle unità locali, che curiosamente qualcuno chiama «città» anche se di città possiede a ben vedere solo alcuni caratteri edilizi, e nulla altro.

Non è città una cosa dove le abitazioni sono il più possibile lontane le une dalle altre, il più possibile autonome (pensiamo al valore aggiunto commerciale che rappresenta l’invece assai più costoso e impattante impianto autonomo, rispetto a quelli comuni), chiuse da alte recinzioni o siepi, desolatamente uguali perché prodotte in serie ma desolatamente alla ricerca di un nodo per distinguersi, la fontanella, le persiane in materiale esotico, la curiosa inclinazione di una falda del tetto. Non è una città un posto dove le relazioni sociali sono complicatissime e a compartimenti stagni, se non fosse per certe garanzie minime della scuola pubblica dove esiste, e dove gli spazi collettivi sono dedicati al puro consumo, nonostante la retorica dell’esperienza e dell’interazione. In questi ambienti di neo-idiotismo indotto, cresce e prospera la chiusura rispetto a tutto ciò che devia anche minimamente dall’immaginario a paraocchi della vita locale, della vegetazione locale si potrebbe anche dire qualche volta. Pensare che proprio la città diversa, stimolante perché pungente e «competitiva» rappresenta il punto più alto di resilienza ambientale e sociale contro gravi problemi come il cambiamento climatico o la stessa urbanizzazione del pianeta. E invece, cosa ci propone, nelle parole e nei fatti concreti, la destra xenofoba? Un mondo di famiglie ordinatamente irreggimentate nel sistema casa-scuola-lavoro, culturalmente vernacolari e orgogliose di esserlo, chiuse a riccio nei loro piccoli egoismi e pronte a reprimere (o auto-reprimere) qualunque devianza dal modello. In pratica, una istigazione al suicidio. Pare un po’ esagerato, ma piuttosto realistico, come scenario.

Su La Città Conquistatrice, qualche considerazione in più nell’articolo Salvini e l’Urbanistica del Novecento
 

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