rotate-mobile
Venerdì, 19 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La scatola dei giochi del "Piccolo Architetto"

Non si dovrebbe parlare dei fatti propri, che non interessano a nessuno e sono un punto di vista tanto soggettivo da non valere quasi nulla poi come criterio più generale. Nello stesso tempo, dei fatti propri si finisce sempre e comunque per parlare, dato che gli spunti condizionanti (un libro magari su argomenti del tutto eccentrici, un'esperienza casuale, una discussione) sono per forza strettamente personali. E così, sia, almeno stavolta, con l'eterno tema «Partecipazione urbana». Argomento che, così almeno mi dicono decine di lettori del sito Città Conquistatrice, sta molto a cuore, e che ho visto di recente molto rinfocolato anche sul social network. Mi capita però di domandarmi cosa diavolo intendano per "partecipazione" questi lettori, e un po' insospettisce il fatto che tantissimi tra loro siano architetti, urbanisti, insomma persone molto direttamente interessate alle trasformazioni della città, su cui peraltro manifestano parallelamente opinioni precise, a volte espresse in forma molto definita. A chiarire un po' le cose, ci pensa una rapida occhiata al modo in cui si manifesta storicamente questa spinta alla partecipazione urbana.

La cui origine moderna si colloca più o meno all'alba della ricostruzione post bellica di metà '900, quando da un lato iniziano a dispiegarsi certe culture razionaliste della grande trasformazione pianificata della città, della produzione seriale «industrializzata» di alloggi economici e interi quartieri su dimensioni senza precedenti, dall'altro (come avvertono poco ascoltate rilevazioni sociologiche e di mercato) si manifestano i primi disagi degli utenti e destinatari, non tanto per la banale risposta tecnica ai loro bisogni, quanto per la qualità di quella risposta. La reazione iniziale di progettisti e decisori, in massima parte, è di cercare di convincere questi dubbiosi che tutto è fatto nel loro interesse, e che si tratta semplicemente di "adeguarsi al cambiamento", alla modernità, ai nuovi stili di vita, tempi, metodi, prima o poi le cose si aggiusteranno. Contemporaneamente, però alcuni fra i progettisti e gli operatori sociali più sensibili, iniziano i processi che appunto oggi chiamiamo di "partecipazione", vale a dire di coinvolgimento attivo dei destinatari dei progetti nella loro formazione. Riassunto per sommi capi, il processo si organizza per una fase di ascolto (o rilevazione, o assemblea, o come la chiamano gli americani di "charrette"), a cui segue la redazione del progetto vero e proprio, eventualmente rivisto e ridiscusso con procedure analoghe.

Sappiamo più o meno che fine hanno fatto, quei progettoni che comunque venivano decisi piuttosto autoritariamente dall'alto "per il nostro bene": negli anni successivi o hanno subito abbandoni e demolizioni vistose, come quelle coi candelotti di dinamite dei famosi filmati, o sono diventati involontariamente una sorta di nascondiglio per processi sociali tuttora irrisolti, che si chiamano "emergenza banlieu", o flussi migratori che dir si voglia. Sappiamo bene, però, anche che fine ha fatto il percorso della partecipazione ai progetti, ovvero di allargare sempre più ai cittadini destinatari la parola sulle modalità di trasformazione urbana: una specie di scatola di montaggio, più o meno istituzionalizzata, che potremmo definire "il piccolo architetto". Perché accade un fatto per nulla scontato a ben vedere, e cioè che i processi partecipativi sulle trasformazioni urbane, invece di essere un momento analogo ad altre manifestazioni democratiche (poniamo sulla sanità, l'istruzione, i diritti delle minoranze e via dicendo) finiscano per concentrarsi su aspetti diciamo così superficiali, e impropri per ovvia scarsa competenza dei proponenti. Un comune cittadino, esattamente come non capisce un acca di operazioni chirurgiche o programmazione pedagogica, fatica inutilmente quando si tratta di tradurre un proprio bisogno in spazi e strutture fisiche, e figuriamoci ragionare in modo equilibrato e lungimirante rispetto ad altri bisogni. Esprime una propria piccola idea da dilettante, che al massimo può essere recepita, infilata come contentino dentro il "progetto deciso dall'alto", e per giunta confermare una odiosa gerarchia sociale: chi ha più potere – economico, mediatico, culturale - avrà comunque più influenza anche in questo ambito. Oggi ci arrivano in soccorso le nuove forme tecnologiche-organizzative, genericamente conosciute come bilanci partecipativi, smart city, democrazia elettronica e via dicendo, ma c'è pur sempre un dubbio: che domande ci verranno sottoposte? Ci verrà chiesto di nuovo di esprimere un progettino-contentino da infilare nell'urna della grande lotteria, oppure finalmente, in quanto cittadini, potremo esprimere grandi bisogni di abitabilità, socialità, ambiente, mobilità, lasciando poi a chi "ne capisce" il compito di elaborare risposte coerenti?

Su La Città Conquistatrice (nonostante l'appunto dei compilatori del Questionario) ci sono parecchi articoli che sviluppano questi appunti alle forme contemporanee di Partecipazione

Si parla di

La scatola dei giochi del "Piccolo Architetto"

Today è in caricamento