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Giovedì, 28 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La suburbanizzazione italiana a loro insaputa

Quando un gruppo di ricerca-azione sul territorio si inventò, in qualche riunione braistorming, lo stravagante lievemente paesano-vertiginoso nomignolo di Città Infinita per lo sprawl della regione urbana milanese, aveva almeno chiari i propri obiettivi. Inventarsi col nome nuovo anche un posto nuovo dentro cui collocare i progetti di trasformazione autostradali-suburbani che erano l'obiettivo territoriale storico dei conservatori. Ma a parte quel nomignolo parrocchiale la dispersione insediativa era sempre la stessa, quella che già si cercava di contrastare nel Piano Intercomunale Milanese pur nell'appiattimento della «curva dei valori» a metà '900. E non molto diversa anche da quella, per il momento soprattutto potenziale, che i primi fautori dei piani regolatori urbanistici notavano all'alba del fascismo e della prima Autostrada tra Milano e i Laghi. Insomma in Italia il decentramento o dispersione insediativa, a seconda del giudizio socio-ambientale che se ne dà, ovvero ciò che chiamiamo più genericamente nel mondo suburbanizzazione, succede davanti agli occhi di tutti da sempre. Naturalmente con maggiore visibilità e consapevolezza collettiva da quando cresce uno dei suoi presupposti principali ovvero la motorizzazione privata di massa. E chi vuole invece chiamare quella cosa Città Infinita o altro o fa o per colpevole ignoranza, o perché ha qualche suo scopo come abbiamo accennato sopra.

Esiste poi un'altra categoria: quelli che sembrano non accorgersi affatto dell'esistenza del suburbio. O meglio si accorgono di qualche singola componente di quella gigantesca macchina sociale territoriale di consumi e immaginario che materialmente ci incombe sulla testa da generazioni. Vanno a trovare l'amico che si è comprato la casetta in collina e restano estasiati dal prato con steccato bianco come quello dei film in bianco e nero ma un po' perplessi dall'assenza di passanti anche perché non c'è nessun motivo per passare. Quando su uno schermo vediamo il nuotatore Burt Lancaster «Uomo a Nudo», sgattaiolare attraverso le siepi suburbane di confine delle proprietà, per tuffarsi dentro le piscine del vicinato nel suo singolare percorso di ritorno a casa, ci appare chiarissima almeno una cosa: che quello sfondo non è scelto a caso, ma proprio perché quelle contraddizioni interiori assumono forme specifiche condizionate dall'ambiente delle villette e dei giardini. La stessa cosa con la giovane coppia di «Revolutionary Road» appena trasferita dalla città nella casetta in fondo all'accesso cul-de-sac a inversione di marcia tanto più sinistramente tranquillo rispetto alla via urbana. Anche l'arte ci presenta la scenografia come indispensabile contenitore di quella narrazione.

Ma poi in Italia arriva Nanni Moretti e i suoi cultori notoriamente attendono avidi e acritici gocce di saggezza e non messaggi da acquisire criticamente in quanto tali: la sua leggendaria passeggiata n scooter nelle periferie suburbane di Roma non è un porsi delle domande su quei luoghi noti e chi li ha costruiti e li abita. Diventa invece vera e propria scoperta di qualcosa prima inesistente, per cui non esiste altro metro di misura se non quello fissato dall'autore stesso della scoperta. Non importa se di quel suburbio (certo con varianti spaziali e sociali e architettoniche infinite) si parla da specialisti o dilettanti da decenni, da generazioni. No: stiamo davanti alla rivelazione di «Caro Diario City» e dobbiamo prenderla così com'è confezionata. Probabilmente poi la cosa vale per qualunque narrazione suburbana del genere, si chiami La Notte di Antonioni o appunto la Città Infinita dei sociologi a gettone dispersi sul territorio: lo sconosciuto inconoscibile ci viene rivelato completo di pacchetto confezione da prendere o lasciare.

Non potremo mai conoscerlo, trasformarlo, discuterlo, questo suburbio, questo vessillo di anti urbanità, di conservatorismo reazionario sociale e politico, enorme impatto ambientale, vera e propria zavorra al progresso collettivo. E non si può non restare di nuovo esterrefatti di fronte all'ennesima scoperta dell'acqua calda suburbana, stavolta nelle forme che si credevano quanto meno più note da generazioni, del «sogno immerso nel verde a quindici minuti dal centro», che in Italia viene di norma importato secondo i criteri tecnico-promozionali vigenti negli anni '60 americani circa un decennio più tardi. Quei quartieri di prima o seconda cintura metropolitana resi leggendari dalle promozioni televisive, già tanto simili da sole alle sitcom doppiate che sponsorizzavano. Niente da fare: siamo di fronte al caso disperato di chi dopo aver studiato per anni un animale feroce sui libri quando lo incontra nella realtà non riesce a evitare di farsi mangiare, incapace di completare appunto il passaggio dall'informazione alla sua interiorizzazione. Che disastro leggere come questi quartieri sarebbero una versione delle New Town inglesi. Perché non dei maccheroni alle melanzane?

Vedi anche e soprattutto: Davide Coppo Milano San Felice, il fascino perverso del sobborgo borghese, Rivista Studio 11 maggio 2023
 

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