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Giovedì, 25 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Lo slogan del quarto d'ora accademico-urbano

Non lontano da casa mia qualche genio del marketing immobiliare ha scoperto l'ennesima gradazione di acqua calda inventandosi i Quindici Minuti Senza Città. Ovvero scrivendo da qualche parte delle pagine web e dei tabelloni colorati che schermano il cantiere di un nuovo complesso edilizio, che insomma chi cerca la vera Città dei Quindici Minuti lì la troverà nella sua realizzazione ideale. Il che, tra svincoli avviticchiati sopra capannoni oltre l'aeroporto, mi pare si possa chiamare appunto «Quindici Minuti Senza Città». Del resto va detto ancora che a cosa corrisponda questo slogan tanto di moda da quando durante la pandemia è stato adottato dall'amministrazione di Parigi, rapidamente imitata, non si capisce più di tanto. Se un professore universitario, peraltro in materie che con la città hanno rapporti piuttosto relativi e più Smart che altro, dice di ispirarsi a Jane Jacobs e fissa un raggio di tempo anziché di spazio per delimitare distretti, che sta facendo di nuovo? In sé e per sé assolutamente nulla, salvo ovviamente agire in modo efficace sulla politica. Perché l'idea non è neppure tale, giusto uno slogan buttato lì con guizzo di genio nella scelta di tempi e modi. Una cosa da stilisti più che da studiosi.

Jane Jacobs, peraltro, usata come fonte per dimensioni forma e funzioni dei quartieri urbani, è un riferimento al limite della stravaganza: semplicemente la critica del modernismo come metodo meccanico e disumano di pensare la città (lo zoning socio-funzionalmente segregato, forme fisiche avulse da comportamenti e aspirazioni reali), anche quando implicitamente può suggerire diversi ambiti spazio-tempo per l'individuo la famiglia la comunità, lo fa prendendo inconsapevolmente a prestito idee altrui diventate «senso comune della casalinga». Prima fra tutte per inciso proprio la Neighborhood Unit di cui gli stessi modernisti provavano a farsi interpreti coi loro quartieri autosufficienti. Ma il professore di Smart City e sistemi intelligenti di gestione ovviamente ignora ogni atomo della storia ed evoluzione della cosiddetta unità di vicinato o quartiere autosufficiente, e crede in buona fede di averlo inventato lui. In pratica facendosi vendicatore postumo dei contadini inurbani e spaesati che provavano a improvvisare un loro villaggio rurale ancestrale incistato nella metropoli industriale, modificandone ciò che per primo cedeva alle loro spinte. Ma non sarebbe meglio, invece di reinventare la ruota e balzare genialmente in un lampo a monopattini Segway e Tesla sfreccianti su piste coi cordoli di titanio, provare a soffermarsi un istante sulla storia vera di quelle cose?

Settant'anni fa Lewis Mumford, in genere piuttosto affidabile come critico perché non interno ad alcuna corporazione di interessi specifici, di fronte al disagio degli architetti urbanisti per le difficoltà dei loro quartieri autosufficienti modernisti o suburbani (si stava ancora preparando la «morte dell'architettura moderna» con le cariche di dinamite al Pruitt-Igoe di St. Louis già ridotto a rudere dal fallimento sociale), provava a consigliare il medesimo percorso di riflessione. Ricordando ai progettisti che in fondo loro non avevano «inventato» un bel nulla, solo introdotto modifiche tecniche a un modello prima auto-prodotto in qualche misura dagli stessi abitanti, come involontariamente raccontava anche Jane Jacobs, poi osservato dalla sociologie urbana, poi sfruttato e trasformato in modello replicabile da Clarence Perry. Grazie a una intuizione a suo modo geniale ma basata sullo studio consapevole: la sociologia si transustanzia in architettura e progetto di spazio provando a rispondere sistematicamente a tutti i bisogni di spazio rilevati. E quei bisogni sia Perry che tanti altri studiosi li conoscevano bene da una ventina d'anni.

Ma sia nel periodo tra le due guerre quando si perfezionava il metodo del Quartiere Autosufficiente, sia nella seconda metà del '900 quando con ritocchi di solito puramente formali-quantitativi lo si sperimentava per «costruire le periferie», mancavano i presupposti tecnici ambientali e socioeconomici di una vera integrazione funzionale. Ovvero là dentro certe cose non ci potevano entrare: il lavoro per esempio, la produzione industriale, la produzione alimentare, servizi non necessariamente essenziali e via dicendo. In pratica la sociologia del villaggio ancestrale incistato nella metropoli aveva scoperto i bisogni essenziali a cui gli ex contadini avevano risposto col fai-da-te: dormire, lavarsi, comprare due cose per la colazione, mandare i figli a scuola, pregare, fare una passeggiatina ai giardinetti o nell'orto della zia. Non riuscivano a pensare ad altro, così da soli, e chi provava ad aiutarli lo faceva senza aggiungerne sistematicamente altri di bisogni, migliorando le forme esterne delle risposte senza cambiare le domande insomma. Bravo il professore di sistemi intelligenti e Smart City che pur a sua insaputa a quelle cose con la Città dei Quindici Minuti spalanca la porta. Dentro quella bolla teorica si possono infatti infilare lavoro produzione agricoltura high-tech a km0 servizi innovativi. E quel fattore tempo mescolato alla modulazione dei flussi (che è il tratto distintivo dell'approccio Smart) può dilatarlo o comprimerlo, lo spazio, a differenza di quanto avveniva col mezzo chilometro a piedi della Neighborhood Unit, calcolato sul bambino di terza che va a scuola in sicurezza da solo senza perdersi. Però consiglieremmo al geniale professore e a tutti i suoi seguaci, di chiedersi su cosa si sta operando, invece di rivendere subito lo slogan pubblicitario al miglior offerente politico, e chiedere «nuovi fondi per la ricerca». C'è tanto lavoro da fare, e spazio-tempo per tutti, volendo.

Riferimenti: Lewis Mumford, Il quartiere spontaneo e l'unità di vicinato (1954), trad. it. F. Bottini

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