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Martedì, 16 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Lo spazio pubblico di sinistra nell'epoca della privatizzazione ideologica

Leggo interventi e interviste entusiaste della «Milano Verde», in cui sedicenti progressisti solidali e sociali senza battere ciglio decantano le future joint venture privato-pubbliche per la gestione di quel patrimonio che, ci spiegano, sarà il vero tessuto urbano della metropoli sostenibile del futuro. Leggo in contemporanea, insieme a tutti voi, le polemiche e gli sfottò su quel Regolamento dove il Comune di Novara pare aver equiparato il «decoro urbano» alla densità relativa di biciclette legate ai pali (e dove, se no?) e centimetri quadrati di pelle femminile esposti all'aria. E mi domando ragionevolmente se esista ancora qualche vaga idea comunemente accettata di spazio pubblico, in tanta evidente allegra e divertita confusione. Perché come dovrebbero sapere tutti ma evidentemente non sanno, o non vogliono sentirne parlare, c'è una bella differenza tra un parco o una via o una piazza dove tutti possono scorazzare a proprio piacimento, posto che non nuocciano a nessuno né indebitamente impediscano ad altri di fare la medesima cosa; e invece uno spazio, di solito molto ben definito e simbolicamente delimitato (ci hanno pensato gli architetti o la storia) dove qualcuno pur con le migliori intenzioni di ordine e pulizia detta regole assolutamente discrezionali di accesso: tu si, tu no, a quest'ora si, più tardi non se ne parla neppure, tu tornatene a casa e ripresentati con un aspetto più consono al luogo … Ricorda più una festa privata che certi grandi affreschi collettivi urbani.

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E mi torna in mente anche quell'immediatamente scomparsa dagli onori della cronaca, vicenda della fontanella contesa in un Municipio di Milano, che l'amministrazione decentrata ha fatto rimuovere, alcuni cittadini pretendono di ripristinare, molti ritenevano elemento di degrado anziché di arredo e socialità, altri ancora hanno fatto assurgere a simbolo di «diritto all'acqua». La questione, politicamente parlando, anche se di politica politicante e locale si tratta, si trascina da tempo. Anche prima della vittoria del centrodestra alle elezioni del Municipio, il futuro presidente allora all'opposizione dichiarava alla stampa: «Da tempo i cittadini residenti segnalano le condizioni di degrado che il quartiere ha raggiunto: i giardini limitrofi, dove senzatetto e sbandati bivaccano, vengono ormai utilizzati per le necessità corporali; la fontanella presente sul piazzale antistante l’edificio è usata come doccia pubblica; i resti del cibo distribuito da Pane Quotidiano vengono abbandonati e hanno dato origine a vere e proprie colonie di ratti». Un difensore dello spazio pubblico di destra? Da un certo punto di vista parrebbe di si, ma piuttosto simile alla giunta novarese dello stesso colore: vieni qui ma solo se segui certe regole di «decoro» evidentemente in contrasto con l'uso sociale e solidale della Associazione Pane Quotidiano che ogni giorno distribuisce pasti e assistenza a poveri e senza tetto. Ma, ahimè ogni tanto tocca dirlo anche a me: il problema è un altro.

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È un altro per via del vero e proprio scontro tra due forme (ideologicamente) contrapposte di semiprivatizzazione, portatrici di un senso comune per nulla condiviso a quanto pare, e che costituisce di per sé la negazione dell'idea di spazio pubblico, sostituita da una discrezionalità abbastanza rischiosa. Forse per chiarire meglio l'idea, al generico concetto di decoro dei leghisti, novaresi o milanesi o anche valligiani quando difendono i loro boschi o pascoli da certi comportamenti, aggiungiamo una lettura assai terra terra dello spazio fisico dello slargo «degradato» da Pane Quotidiano e dagli utenti dei suoi servizi. C'è la superficie in fregio alla carreggiata, del tipo che nei nostri centri tradizionali un tempo era dedicata alla pesa, o a un chiosco commerciale, o un distributore di carburante, o semplicemente a sosta. Il chiosco c'è ed è la postazione originaria, da cui però la solidarietà si è allargata a permeare di sé un bel pezzo di superficie, accorpandola ed escludendo dall'uso e dalla vista chi alla militanza solidale non partecipa. L'ha fatto, per giunta, coi metodi piuttosto improvvisati dell'emergenza permanente caratteristici del volontariato di scarsi mezzi e molta inventività, stile struttura post alluvione, guerra, terremoto: teloni tesi, allineamenti militari senza troppe storie, scritte cubitali da base spaziale. Nulla da eccepire sullo svolgimento di «attività di valore sociale», ma torna la domanda: quello è davvero spazio pubblico? Oppure una privatizzazione che automaticamente evoca la la concorrenza con ogni mezzo lecito di altre (discutibili, ma automaticamente legittimate) privatizzazioni di altro colore? Una bella domanda.

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