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Giovedì, 18 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Lotta di classe a pedali

C'è un sacco di gente convinta che pedalare sia per così dire il motore umano di trasformazione dello stato di cose presente, ne fa una serissima militanza in quanto tale. Le associazioni ne sono piene, di persone così, piuttosto propense a pensare che se un tempo si identificava il principale agente del cambiamento, rivoluzionario o riformista che fosse, nella classe operaia, oggi se c'è qualcosa in grado di coagulare rispetto dell'ambiente, dei diritti, dell'uguaglianza, si tratta proprio di quell'oggetto su due ruote con sellino e pedali, completo naturalmente di chi ci pedala sopra. Pur condividendo qui e là, in tutto o in parte, alcuni spunti effettivi e praticamente verificati in parecchi lustri di ciclismo urbano adulto, mi pare di non poter affatto condividere questa specie di fede messianica sui poteri taumaturgici e politici di un mezzo di trasporto. Anzi mi pare proprio che, guardandosi attorno oltre certe spesse fette di salame che ottundono lo sguardo di tanti, la maggior parte della «lotta di classe» che si riesce a vedere non consista di sforzi dei ciclisti contro qualche avversario storico (per esempio l'automobilismo dilagante e di solito molto più ideologico, ai limiti dell'inconsapevolmente religioso), ma tra gruppi e segmenti del mondo ciclistico stesso, o comunque grondante delle classiche connotazioni di guerra tra poveri, mentre qualcuno se la ride e se ne approfitta.

Certo, la contrapposizione dialettica del «mondo ciclistico» con altri paralleli universi esiste, per carità, e dà anche qualche frutto positivo in termini di mobilità, ambiente, relazioni sociali, persino economiche. Ma quella orribile conflittualità masochista interna resta, se non altro a fare da sintomo di qualcosa di più profondo, su cui proverò brevemente a tornare alla fine di questa carrellata. Che comincia con un orrendo episodio in cui sono stato coinvolto mio malgrado, e con un pizzico di colpa personale, qualche settimana fa, su un tratto di urbanissima e segregata pista ciclabile milanese, quella del Naviglio Grande tra le ultime propaggini dell'accessibilità mista auto-bici-pedoni, e la successiva trasformazione in vera e propria strada alzaia dove le bici passano giusto perché non c'è altra possibilità. In quel piccolo tratto segregato (un chilometro circa) convivono forzosamente varie tribù nemiche di ciclisti e di pedoni, e a volte il conflitto esplode: a me è esploso sulla spalla destra mentre accostavo da quella parte. Un classico pedalatore «ginnico fluo», di quelli che in genere per manifestare la propria presenza ti urlano alle spalle «levati dai coglioni che arrivo io» (il campanello stona, sul mostro high-tech) aveva optato per scavalcarmi a destra, a velocità circa doppia della mia, e quel mio accostamento di qualche decina di centimetri aveva generato una bottarella tra le due spalle. Ma soprattutto la lesa maestà del Re della Strada, tatuato rasato palestrato, già pronto prima a esplodere automaticamente in una sequela di madonne su mia madre & co., poi a passare ai fatti in un episodio di vera «Road Rage» di stile autostradale, su cui qui sorvolo. Caso estremo, certo, ma riassume centinaia, migliaia di altre cose minori accennate e meno accennate, tutte del medesimo segno: se «lotta di classe» c'è, quella classe non si qualifica certo per la pedalata.

Il secondo caso a cui vorrei fare riferimento, ce lo racconta un recentissimo articolo su The Atlantic CityLab, quelle pagine coordinate da Richard Florida e sempre attente se non altro a mescolare le cose della città senza troppi squilibri ingegneristico-immobiliari. A San Francisco, come in tante altre grandi metropoli, la pratica del bike sharing prova ad uscire dal limbo sia della sperimentazione iniziale sul campo, sia dalla nicchia del giocattolo per turisti o ragazzini curiosi sempre aperti al nuovo in sé e per sé. Con un programma partecipato, aperto a sostegni di inclusione (economica e non), dotato di ottime sinergie sia territoriali che di modalità trasportistica e tariffaria, ma incontra il muro di gomma della resistenza sociale. Già si sapeva, di una quantità di resistenze sociali alle varie manifestazioni del ciclismo, dagli automobilisti integralisti che semplicemente odiano tutto ciò che possa mettere in discussione il loro credo e la loro forma di città-autostrada ideale, ai negozianti che si vedono messi sul lastrico perché una pista ciclabile sembra cancellare il rapporto organico della porta della bottega col flusso stradale, e via dicendo. Ma nel caso di San Francisco, c'è un particolarissimo «vuoto nella mappa della rete bike sharing» determinato dal conflitto di un'altra idea di ciclismo, che ammucchia vecchie idee blaxploitation identitarie, localismo, diffidenza contro la «colonizzazione dall'esterno» (quella funziona sempre), insomma c'è un arruffapopolo locale, più o meno in ottima fede per quel che se ne capisce, che ha deciso di impugnare il ciclismo come pratica rivoluzionaria, a patto che il leader indiscusso sia lui, naturalmente. Se vi ricorda qualcosa o qualcuno, avete indovinato. Naturalmente dell'idea di mobilità, di ambiente, di giustizia, di equità, se ne deve sempre parlare «dopo la rivoluzione», adesso non c'è tempo, mai.

Su La Città Conquistatrice il tag Piste Ciclabili raccoglie anche una quantità di contributi e links internazionali legati a queste forme di contrasto e conflittualità interna

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