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Giovedì, 28 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Nevicate e ciclismo urbano

Prequel: Milano, una domenica di dicembre 2017. Il tempo era poco allettante, ma non particolarmente freddo, e il calo fisiologico del traffico nel giorno festivo rendeva al solito più rilassante una pedalata attraverso le zone urbane, magari in un percorso ad anello attorno al centro, anziché puntare dritto verso i parchi di periferia e la fascia suburbana-rurale esterna. Così sono uscito nonostante quella cappa pesante di grigio che appiattiva colori e distanze, attraversando strade tranquille e semivuote, pedoni e ciclisti quasi zero, poche anche le auto salvo le solite direttrici principali. Poi dalle parti dello stadio è cambiato decisamente qualcosa nell'aria, mentre notavo un chiosco di fioraio che nonostante fosse primo pomeriggio iniziava a sbaraccare, col tizio che scrutava il cielo sistemando le cassette. E sono iniziati a scendere, quasi subito piuttosto grossi e fitti, i fiocchi di neve: ormai stavo a sei o sette chilometri da casa, comunque ben dentro la zona urbana, e non c'era alcun motivo pratico per non continuare il mio giro più o meno come preventivato. Ho cavato il poncho impermeabile dallo zainetto, l'ho fissato con le due mollette d'ordinanza ai cestini anteriore e posteriore formando una specie di verandina, e via ancora attraverso quartieri e giardini sempre più bianchi (anche a sperimentare l'uso del cambio per scopi diversi dalle pendenze e velocità).

Ma torniamo al giorno d'oggi, perché durante la seconda e tardiva nevicata dell'inverno 2017-2018 capita di girare per la città anche in un giorno feriale, nelle ore di massima attività, e di notare però qualcosa di identico a quella domenica pomeriggio: non c'è un cane in bicicletta a cercarlo col lanternino. Anche le decantate bici condivise «ultimo miglio», sia quelle con rastrelliera fissa da pendolari per percorsi regolari, sia le nuove per movimenti più occasionali e irregolari a parcheggio libero, stanno lì ad accumulare neve sul sellino. E così coi fiocchi bianchi che fungono da singolare «madeleinette» proustiana a evocare memorie sepolte, mi torna in mente un aspetto non immediatamente notato di quel pomeriggio domenicale sotto la neve, mentre completavo lentamente l'arco attorno alla cerchia delle tangenziali verso casa: non solo silenzio, non solo la luce surreale del bianco che rifletteva i primi lampioni (particolarmente vistosa dove la città lascia posto a qualche tratto di tutelatissima campagna). Il fatto è che per un paio d'ore abbondanti, e parecchi chilometri attraverso ambienti vari, non ho incrociato un solo ciclista. Eppure non mi pareva che la situazione fosse così estrema, proibitiva, io stesso non ne sono uscito neppure particolarmente fradicio, o altrimenti provato. Perché?

Posso azzardare, allora e oggi, una risposta generale e credo da tutti condivisibile: la città non è matura per un ciclismo di mobilità corrente, abbastanza adattabile ad ogni situazione. Ma proviamo a guardare qualche dettaglio. Non lo è per la scarsa affidabilità dei percorsi, la cui discontinuità (a dir poco) e in genere scarsa cura e manutenzione dei dettagli si enfatizza in situazioni straordinarie come quelle di una nevicata, o magari quelle più subdole e invisibili di una gelata. Non lo è, conseguentemente, per la scarsa sicurezza garantita dai mezzi e dagli accessori: chi esce spesso coi cestini carichi, o indossando un cappuccio per proteggersi (solo per fare due esempi tipici) sa benissimo quanto possa cambiare in peggio la situazione delle frenate di pur piccola emergenza, e la visibilità laterale, in caso di tempo piovoso o nevicata. Non dimentichiamo che se un piccolo incidente in auto può al massimo mettere di cattivo umore per il costo della eventuale riparazione, l'equivalente in bicicletta è in grado di compromettere l'intera giornata, a volte qualcosa di più. Ce ne è già a sufficienza così, per capire come mai già ai primi fiocchi il ciclismo urbano si riduca a quei pochissimi che non possono proprio farne a meno. E domandarsi seriamente: è davvero il caso di ribaltare tutta l'organizzazione degli spazi urbani, solo per consentire il dilagare assoluto del «mezzo nobile per la mobilità»? Meglio pensarci con più calma, farsi due passi, e aspettare che sbuchi il sole.

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