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Giovedì, 28 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Partecipazione urbana e qualità dei progetti

È capitato a tutti, poche o tante volte, di cascare nella trappolina dell'acquisto sconsiderato. Non mi riferisco qui alla merce di dubbia provenienza per cui esiste quel termine anche legale dell'incauto acquisto, ma più modestamente alla sciocchezza impulsiva di buttar soldi in qualcosa che risponde giusto a un impulso del momento, e poi si rivela invece inutile se non controproducente per la medesima necessità a cui si voleva rispondere. Vale per tantissime cose, a partire dal classico capo di abbigliamento di forme e colori imposti dalla moda ma che fanno a cazzotti col nostro portamento e finirà subito in fondo a un oscuro armadio in attesa di discreto smaltimento. Ma pesa soprattutto sulle cose durevoli, in genere onerose, e ancor più se saremo obbligati in un modo o nell'altro a farne durevolmente uso: dall'auto o casa scelte pensando a una vita che non è affatto la nostra, fino alla città e società dentro cui auto e casa le sfruttiamo, individualmente e socialmente. Perché, come sempre o molto spesso in queste note, lì si va a finire: alla trasformazione della città e del territorio osservate dal punto di vista di un consumo, che si decide, si paga, si gode o malamente si subisce. L'acquisto sconsiderato stavolta prende le forme del cosiddetto «progetto partecipato».

Prendo le mosse dal territorio stesso, osservando gli ormai infiniti esempi di spazi ignorati, degradati, vistosamente abbandonati soprattutto da chi li aveva fortemente e perentoriamente voluti. Giocattoli buttati via dopo pochi minuti anziché diventare compagni fedeli di una lunga stagione della vita, come avrebbe dovuto essere. Li conosciamo tutti, quei tratti di strada rimodellati anche radicalmente coinvolgendo esercenti, abitanti, associazioni e volontariato, le piazze «tatticamente» trasformate recuperando angolini abbandonati all'incuria o al parcheggio abusivo, magari solo posando una fioriera o riverniciando l'asfalto, portando i bambini dell'asilo armati di secchiello e pennello. Poi la domenica dell'inaugurazione in pompa magna, il mercatino delle pulci e il concerto del gruppo giovanile di quartiere. Poi ancora passano le settimane, i mesi, e le cose cambiano, la tattica cede il posto alla strategia, che però non è quella che ci si poteva aspettare. Quel posto certamente è cambiato perché qualcosa ci abbiamo pur fatto, ma sono i risultati che non ci soddisfano per nulla, non rispondono affatto ai nostri bisogni, come quel paio di pantaloni dal colore di moda troppo vistoso che già dopo il primo giorno ci faceva specie mettere addosso e andarci in giro. Perché? Perché non sappiamo scegliere, perché siamo dei consumatori difettosi, dei cattivi progettisti, in definitiva dei pessimi cittadini visto che quei pantaloni/piazza/strada li abbiamo decisi per conto di tanti altri utenti.

A questo punto logicamente si presenta il bivio: come superare un problema di incompetenza? Delegare a qualcuno competente o acquisirla, quella competenza. La seconda e più democratica opzione, per realizzare spazi comuni davvero a misura di collettività e dei suoi bisogni, è quella pensata ai primordi della partecipazione urbana novecentesca, quando nelle scuole medie si faceva adottare obbligatoriamente il libro di letture ed esercizi «Economia municipale». Un approccio poi sviluppato ulteriormente nella proposta britannica, immediatamente successiva alla prima Guerra Mondiale, di inserire la gestione urbana e le sue articolazioni anche tecniche nei correnti corsi di Educazione Civica. Ma il limite è che si pensava a un cittadino ideale già maturo all'esercizio dei propri diritti, limite emerso chiaramente proprio nella Stagione dei Diritti per Tutti anni '60 e successivi. Su cui di fatto si sono modellate poi le istanze partecipative, accantonando parecchio l'aspetto delle competenze, le quali però restano indispensabili per passare da una confusa espressione di bisogni al loro effettivo soddisfacimento. Voglio una città migliore, la pretendo, è mio diritto, ma non ho la più pallida idea di come la di debba progettare. Ergo, anche dentro i Documenti di partecipazione e diritti del cittadino che le nostre amministrazioni pubbliche via via adottano, probabilmente dovrebbe trovare più spazio quell'aspetto, perduto come lacrime nella pioggia tra le pur sacrosante rivendicazioni.

Riferimenti: Commissione Skeffington (UK 1969), Educazione e Partecipazione in Urbanistica
 

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