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Giovedì, 25 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

La portineria non fa solo pettegolezzi

Quando a cavallo tra gli anni '60 e '70 del secolo scorso Oscar Newman si inoltrava negli anfratti più bui puzzolenti e spesso pericolosi dei famigerati «Public Housing Projects» aveva una tesi di massima da dimostrare: il rapporto tra la specifica organizzazione spaziale e il degrado delle forme di convivenza che aveva portato prima a un degrado fisico anche degli spazi comuni, e poi a un crollo della loro sicurezza. Si definiva, nel corso di quegli studi sul campo e successive elaborazioni teoriche, l'idea di progettazione di «spazi sicuri» basati sostanzialmente sulle idee di identità, proprietà, gestibilità delle componenti collettive esterne all'alloggio individuale e familiare, che la cultura modernista aveva o sottovalutato o interpretato con eccessiva ottimistica enfasi. Quella che a seguito di quel ripensamento veniva definita dalla critica «la Morte dell'Architettura Moderna», assumeva senso conferendone proprio a quella cancellazione di spazi, sostituiti da altri diversi o semplicemente aboliti accorpandoli alle parti individuali. E in pratica cancellando simbolicamente tutto ciò che aveva significato edilizia sociale di proprietà pubblica e utenza collettiva, l'alloggio in serie della società industriale democratica egualitaria i cui spazi condivisi rappresentavano il centro delle relazioni e riassumevano la Città Pubblica. Ovviamente ci sono parecchi dubbi su questa interpretazione allargata e radicale di tipo liberale-proprietario.

Quello principale per la nostra riflessione, qui, riguarda il fatto che quegli spazi così stigmatizzati (l'atrio, il ballatoio, il cortile, il pianterreno coperto accessibile, il giardino non recintato …) non solo erano stati originariamente concepiti dai progetti modernisti proprio a risolvere problemi di socialità e sicurezza rilevati nella generazione architettonica precedente, specie delle case popolari speculative private, ma c'è di più e di peggio. Ovvero: il medesimo degrado riguarda spazi e ambiti che nulla hanno a che vedere col modernismo, né con la produzione e proprietà pubblica dei progetti architettonici e urbanistici, mentre per converso si può verificare come altri spazi di «modernismo da manuale» non vengano neppure sfiorati. Forse che gli studi di Oscar Newman erano sbagliati nelle premesse nel metodo o nelle conclusioni? Niente affatto, perché come tutte le ricerche serie e sistematiche chiarivano il proprio campo, ovvero quello di constatare il fallimento delle politiche di «plasmare la società attraverso gli spazi» e suggerire qualche intervento operativo. Che essendo tra l'altro focalizzato sulla produzione edilizia sovvenzionata non poteva che riguardare quella, le sue forme e nuovi obiettivi rivisti.

Ma mi torna in mente quando negli anni '30 l'ingegner Giuseppe Gorla allora presidente dell'Istituto Case Popolari di Milano, inaugurando un nuovo quartiere guarda caso modernista a San Siro, chiariva i limiti pedagogici urbani di quegli spazi: se i rozzi contadini aspiranti operai dell'industria ignoravano le regole di convivenza moderne su cui erano stati concepiti gli alloggi e gli ambiti comuni, bisognava in qualche modo insegnargliele, se necessario rinforzando con qualche spintarella autoritaria. Certo nei modi da uomo d'ordine in un regime totalitario come usava allora, ma Gorla di fatto introduceva un concetto e un ruolo. Il concetto è appunto quello dell'educazione civica quotidiana, fatta di regole di convivenza, uso delle strutture condivise, comportamenti individuali e familiari, gestione dei consumi degli spazi delle aspettative. Il secondo è quello di CHI debba erogare quella didattica o controllo: una autorità pubblica di tipo educativo-poliziesco, un operatore di welfare, un libero professionista o dipendente orientato a quel ruolo? Ed è interessante per esempio notare come la figura dell'assistente sociale cresca almeno in Italia proprio nell'arco di tempo che corrisponde al «quartiere di periferia nella modernizzazione nazionale» con l'INA-Casa di Fanfani, di solito decantata per le forme architettoniche senza coglierne il fondamentale resto.

Tornando poi al tema del degrado da cui eravamo partiti, leggo in questi giorni in una petizione «anti-gentrification» come per contrastare l'impoverimento della città che ne deriva si debba chiedere alla pubblica amministrazione «nuove politiche abitative che garantiscano la possibilità a chi nei quartieri già vive di poterci restare e a chi vorrebbe venire a viverci di poterlo fare (anche se a basso reddito, anche se con poca o nulla ricchezza). Quartieri preziosi veri e propri polmoni sociali per la metropoli, non può essere solo il mercato a deciderne il destino». E tra gli interventi diretti o indiretti: «Diffondere gli strumenti del portierato sociale e dei Patti condominiali nelle situazioni condominiali più critiche». Con le premesse di cui sopra, niente di più centrale.

Riferimenti: Petizione Azioni Urgenti per il Diritto alla Casa

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