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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Quanto è grande il progetto urbano?

Mi capita di editare un testo anni '60 di Kevin Lynch dedicato ad alcuni aspetti pratici e manualistici della città percepita, oggetto della sua ricerca e sperimentazione di studioso al MIT per lunghi anni. E di trovarci ad un certo punto in una brevissima rassegna di trasformazioni urbane sostanzialmente mal concepite, ovvero pensando la città come se fosse un edificio, una architettura, la Parigi del Prefetto Èugene Haussmann. Ci sarebbe da saltare un po' sulla sedia a ben vedere, specie per chi sin dall'immatricolazione all'università o magari anche un po' da prima, si è abituato a considerare quella grande trasformazione dei Boulevard (quando la stessa parola Boulevard smette di definire per tutti il bastione-baluardo e si riconverte in sinonimo di ampio viale) il paradigma fondamento del piano urbanistico moderno. L'uso delle leggi di esproprio ferroviarie in città, delle stesse stazioni ferroviarie come nodi urbani, messi in rete a comporre molto più di un servizio multi-hub ai viaggiatori, le facciate unitarie imposte a edifici poi diversi a seconda della proprietà e dell'investimento, l'idea stessa di mostrare tutta una città e non uno o più monumenti alla gloria del potere. No, secondo quel piccolo trafiletto del prestigioso studioso del MIT quel paradigma dell'urbanistica moderna a ben vedere non è neppure urbanistica. E chi è arrivato fino a quel punto della sua dissertazione, tra l'altro, in fondo non può che concordare.

Perché sin dall'inizio era stato lo stesso Kevin Lynch, da bravo scienziato sistematico molto attento a delimitare il campo della propria dissertazione, a chiarirci che in realtà lui non voleva affatto occuparsi di cos'è urbanistica (le regole e convenzioni) e cosa non lo è (il progetto definito da attuare nei dettagli) ma come e a quali scale si può lavorare organicamente sulla «città percepita dai sensi» e farlo in modo rivolto a tutti i vari utenti: abitanti, visitatori, operatori economici, chi lavora, chi contempla, chi si arrangia, chi ha un po' timore e vorrebbe rilassarsi in sicurezza e via dicendo. Ma così facendo di fatto prima separa le strategie di progetto settoriale e poi distingue quelle che funzionano da altre che sembrano non funzionare mai, neppure al vaglio della Storia. Nel caso di Haussman, ci suggerisce semplicemente ma implicitamente Lynch, esiste di sicuro un piano generale a trasformare in qualcosa di diverso e più di respiro l'enorme progettone tecnico-ubano, ma non si tratta affatto del piano urbanistico, che qui nella sua forma elementare primordiale (in Italia poi chiamata dalle leggi unitarie «Piano Regolatore Edilizio» ovvero che interessa la città già costruita) disegna strade, ci fa passare le reti fognarie, demolisce gli ostacoli, e in più per via degli architetti come Alphand che partecipano al progetto fissa alcune regole per le facciate.

Il piano vero e proprio è quello politico del mandante Napoleone III, o di ordine pubblico caratteristico di un Prefetto che pensa alle cariche contro le barricate dei dimostranti nei grandi viali assai più accessibili dei vicoli puzzolenti (dove prima si ammucchiavano dalle osterie i Barriques, Barilotti, che danno il nome alla struttura). Solo un architetto, che pensa a tutto in termini di progetto, può confondere l'allargamento di campo spaziale di Haussmann, che pure usa alcune tecniche urbanistiche, con la vera e propria strategia complessa che dovremmo chiamare Piano Urbanistico, con le sue componenti organiche di flussi, funzioni, obiettivi social, sanitari, ambientali, simbolici, economici, politici e così via.

Kevin Lynch, che prima di essere architetto progettista è studioso, coglie bene questa confusione di piani, e prosegue poi spiegando che per esempio Brasilia non è un grande progetto ma vera e propria urbanistica, dato che discende da una strategia di quel genere (il piano generale di Lucio Costa) dentro cui si collocano i pur pigliatutto progetti architettonici di Oscar Niemeyer, il cui ruolo viene spesso confuso. Anche sommando i singoli progetti in un grande schema unitario non si arriva affatto al Piano, ma al Grande Progetto, che ha dei limiti enormi. Peccato che a secoli di distanza (il primissimo caso risale in realtà al Piano dei Commissari del 1811 per Manhattan) i progettisti di architettura continuino a confondere le due linee di riflessione. Ne vale davvero la pena per pure ragioni professionali?

La Città Conquistatrice – Progettazione architettonica

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