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Giovedì, 25 Aprile 2024
Città conquistatrice

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A cura di Fabrizio Bottini

Telenovela: «A cosa serve la storia»

Sistematizzare le conoscenze, ricostruire in un elenco ordinato e verificabile a spunta ogni cosa, è sempre utilissimo. Sempre che, beninteso, ci si ricordi che non è possibile metterci dentro tutto lo scibile umano, perlomeno ogni volta dentro ogni elenco del genere, che si tratti di una lista della spesa o di un grafico-tabella descrittivo di qualche fenomeno, o di definizione comprensiva che poi comprensiva non è affatto, non può esserlo. Una raccomandazione evidentemente inutile per chi, forse per ingenuo eccesso di fiducia, vuoi per malafede, continua imperterrito proprio a ordinare così ogni genere di conoscenze, a volte scombinando ordini precedenti al solo scopo di poter dire: «Ho scoperto qualcosa». Mentre invece ha solo riordinato uno scaffale, operazione meritoria si badi bene, ma lontana dalla logica della nuova conoscenza o scoperta scientifica. Tutti coloro che disegnano mappe da dati, ricostruiscono elenchi ordinati alfanumericamente, incrociano elementi geografici ad altre qualità, dovrebbero capire il rischio del ridicolo che sta in agguato contemplando con eccessivo compiacimento il prodotto del proprio lavoro. Ci pensavo l'altro giorno scorrendo un recente articolo scientifico abbondantemente ripreso dalla stampa di informazione, originariamente pubblicato da PNAS, Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America: «Global trends toward urban street-network sprawl».

Frutto di una pluriennale collaborazione di ricerca interuniversitaria, il saggio come ben riassunto dal titolo rileva, a scala mondiale e su una miriade di casi di insediamento metropolitano, una corrispondenza tra forme della griglia stradale e livelli di dispersione, correlati a loro volta ai noti impatti ambientali, energetici, climatici, sociali e via dicendo. Dopo sette anni di lavoro si evidenzia come in gran parte del mondo l'espansione urbana avvenga per sistemi sconnessi e autoreferenziali, chiusi, a volte segregati secondo il criterio della «gated community». Se ne è ricavata una interattiva Mappa della Connettività stradale, dove si leggono per esempio le differenze tra la crescita urbana nell'Asia sudorientale decisamente dispersa, o quella del Sudamerica in cui una progettazione viaria più continua promuove maggiore densità, o l'Europa dove la presenza di consolidati sistemi tradizionali agisce spesso da disincentivo ai processi di dispersione. Ci raccontano gli articoli che divulgano quei risultati di ricerca, come la comparabilità dei casi e degli schemi dentro un quadro unitario consenta di cogliere quanto «I sistemi viari delle città del mondo tendano ad essere sempre più disconnessi, così da incoraggiare la dispersione urbana e rendere più difficile l'uso del trasporto pubblico». Il che guardato da una prospettiva meno superficiale appare una pericolosa castroneria, praticamente come dire che avendo rilevato qualche corrispondenza tra colore dei capelli e consumo di sigarette sia possibile stabilire così a capocchia qualche misteriosa corrispondenza lineare. Perché quelle ricerche in realtà ci stanno restituendo una storia precisa, che inizia più o meno negli anni '20 del secolo scorso, cent'anni fa.

Henry Ford lanciava la sua auto-avverante profezia: la città ha fatto il suo tempo e grazie all'automobile si può e deve estinguersi, disperdendosi sul territorio. Coerentemente gli architetti provavano a riflettere sule forme specifiche che avrebbe potuto assumere quella dispersione generalizzata, e uno di loro imbroccò una strada più intelligente e ripetibile degli altri. Si chiamava Henry Wright e insieme al forse più famoso collega Clarence Stein stava progettando la «Città Giardino per l'epoca delle Automobili» a Radburn, nel New Jersey. Che seguendo sociologicamente l'organizzazione per Unità di Vicinato, già sistematizzata nel Piano Regionale di New York dentro cui si collocava l'intervento, ne ricalcava anche dal punto di vista viario la logica comunitaria «introversa», con sistemi a cul-de-sac, baccelli di case con doppio affaccio, spazi sicuri sia per auto-vigilanza, sia per divisione tra sistemi pedonali e automobilistici. Era il palinsesto della progettazione suburbana futura a orientamento automobilistico, su cui si sarebbero conformati con poche varianti di rilievo decine, centinaia di migliaia di progetti di lottizzazioni in America e nel mondo, via via dilagava il modello suburbano-consumista-liberale novecentesco. In pratica quel «Radburn Layout» era, in tutto e per tutto, il piano regolatore tipo da manuale per la dispersione urbana automobilistica. Esattamente ciò che sette anni di sistematico riordinamento degli scaffali interuniversitario ha «scoperto»: dove si è progettato così, si è ottenuto quel risultato, magari non sapendo neppure perché si seguiva quello schema, solo applicandolo meccanicamente. Magari conoscere la storia avrebbe aiutato a capire, e a non spararle così grosse, valutando anche quei duri sette anni di lavoro per quel che ci hanno dato, e non per altro che non si sognavano neppure.

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