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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Teorie gender, ma soprattutto pratiche urbane

Una rivista di urbanistica inglese, mezzo secolo fa intitolava «Ottime cucine, pessime città» un articolo sulla rara presenza delle donne nella professione di planner, e in genere la scarsa incidenza femminile nella gestione urbana. I rapporti ONU-Habitat 2009 verificano di continuo la medesima lacuna ancora oggi, specie nelle megalopoli terzomondiali. Il ruolo della donna, chiave nelle economie quotidiane, nei comportamenti virtuosi, nella gestione domestica, evapora quando si esce dall’ambito di decisioni familiari e propensioni al consumo. In altre parole, appena fuori dalla porta di casa vale solo la famosa regola: quando il gioco si fa duro i duri incominciano a giocare. Dove i duri sono tecnocrazia, megadecisioni prive di strategie gestionali, piani ispirati alle grandi categorie dello spirito anziché a quanto è sotto gli occhi di tutti, tranne di grandi e piccoli decisori.

Cosa che appare tanto più curiosa, visto che buona parte della cultura urbanistica attuale si ispira, o dice di ispirarsi, alle riflessioni della “casalinga” Jane Jacobs, meditate durante le faccende di casa, e le commissioni fuori casa, poi raccolte a fine anni ’50 nel famosissimo «La vita e la morte delle grandi città». Quel libro, che è stato anche oggetto di un interessante dibattito con Barack Obama durante la campagna elettorale del 2008, forse dovrebbe essere meno celebrato, e più studiato. Invece, complice una fuorviante “fortuna accademica”, pare che i suoi veri contenuti (la vita della strada, la vivacità dei negozi di quartiere, l’assurdità di certi progetti pensati dal satellite) continuino ad essere rigorosamente evitati. E le donne, invece che protagoniste di primo piano delle decisioni urbanistiche a ogni livello, a rimanere – come nel titolo della sociologa Antonietta Mazzette «Estranee in città».

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