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Giovedì, 18 Aprile 2024
Città conquistatrice

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A cura di Fabrizio Bottini

Trasporti e urbanistica: il respiro di un polmone solo

Qualche anno fa mi venne chiesto di contribuire a una sorta di mosaico tematico per la riforma della legge urbanistica, e decisi (come credo facciano più o meno tutti) di focalizzarmi su un solo aspetto della struttura dei piani, che però evidentemente finiva per stridere con le strategie personali della nostra politica, ad ogni livello. Mi riferisco all'integrazione organica fra il governo dei flussi e degli spazi pubblico-privati, ovvero fusione – almeno in prospettiva – entro un unico strumento e documento dei due attuali Piano regolatore urbanistico e Piano urbano del traffico, ciascuno secondo le modalità e denominazioni delle varie leggi regionali e interpretazioni locali. Non si trattava affatto di un approccio filosofico-metodologico di larga massima, in fondo estraneo alla richiesta di contributo, ma di una semplice descrizione sintetica di come potrebbe funzionare una fusione del genere, per giunta sulla base di una legge esistente e operante da circa un decennio nella postmodernissima California. Per giunta, nel modello originale quell'integrazione è solo uno dei vari collegamenti, pure se quello forse più importante, tra ambiti di programmazione che di solito ahimè viaggiano ciascuno per conto proprio, dai servizi, alla qualità ambientale, al sostegno allo sviluppo economico. Insomma quella serie di azioni che un tempo la cultura del welfare europeo tendeva a includere e sintetizzare, ma che poi tecnicismi e interessi di parte hanno finito per far esplodere in mille orgogliosi rivoli autoreferenziali.

Mi tornava in mente, la faccia assai perplessa dei miei interlocutori tecnico-politici: ti abbiamo chiesto un contributo alla legge urbanistica, cosa ce ne facciamo dei trasporti, che sono «un'altra competenza»? Leggendo qualche giorno fa i capitoli dedicati ai Corridoi insediativi del pur virtuoso Piano Urbano per la Mobilità Sostenibile, in fase di pubblica discussione a Milano. Corridoi insediativi in cui non si coglieva a occhio nudo alcuna traccia dell'insediamento, anzi la parola in realtà era solo sottintesa, tra descrizioni anche «organiche» e dettagliate dei flussi, degli intrecci intermodali, della priorità ai mezzi più sostenibili eccetera. Ma un marziano sceso da poco dalla sua astronave a disco volante, davanti a pagine tecniche del genere, forse non potrebbe fare a meno di chiedersi, dopo adeguato controllo preventivo su Google, che razza di concetto di «corridoio» possa nascondersi là dove le pareti che lo definiscono, le porte che ci si affacciano, siano completamente evaporate, lasciando le nude piastrelle del pavimento senza neppure il battiscopa. Perché accade esattamente così, quando ci si accanisce a sviluppare la «mobilità a prescindere», in cui origini, destinazioni e microtratte intermedie, pur intrecciate in una frattale rete infinita, ignorano i luoghi da e verso cui ci si sposta, o meglio li lasciano all'immaginazione o al caso, o ancora a una condizione statica che non corrisponde affatto alla realtà.

Un approccio diverso, più promettente se non altro in termini di intenzioni, è quello individuabile nel contemporaneo Trasport Plan di Londra, proposto alla discussione pubblica più o meno contemporaneamente al PUMS di Milano, in cui straordinariamente (straordinariamente dal nostro punto di vista, ovvio) c'è un intero capitolo dedicato alla casa. Certo la capitale britannica ha una lunghissima storia di consapevoli interazioni urbanistica-trasporti del genere, dalla paleonovecentesca suburbana «Metro-Land» in cui era la stessa agenzia metropolitana della mobilità a farsi «speculatrice» acquistando e rivendendo in modo programmato i terreni attorno alle previste stazioni, fino ai nostri giorni in cui l'altrettanto speculativo progetto Shard della finanziaria del Qatar per il design dell'archistar Renzo Piano, può vantare «zero parking» appunto grazie al diritto all'accessibilità garantito dall'incorporare praticamente dentro l'edificio un grand hub trasportistico. Operazione impossibile là dove le leggi urbanistiche equiparano in modo piuttosto surreale «standard di accessibilità» e piazzole per automobili, come se poniamo il diritto all'alimentazione fosse formulato in «standard della pastasciutta» in un articolato di legge novecentesca con tutti i timbri.

E poi naturalmente, tutti a scannarsi dalle nostre parti, commentando il medesimo Transport Plan voluto da Sadiq Khan, sugli aspetti repressivi antiautomobilistici, o sulla rete di piste ciclabili dedicate, saltando a piè pari ancora elementi contestuali di base: nel secondo caso che si tratta solo dell'inerzia dei progettoni destrorsi, per quanto biciclettari, dell'ex sindaco oggi ultrà secessionista Boris Johnson (secessionista anche trasportisticamente parlando, si direbbe); e nel primo, di una idea davvero postmoderna di automobilismo, che senza inventarsi fantasiosamente i buoni e i cattivi da premiare o da mettere dietro la lavagna, altro non fa che riflettere sugli strascichi novecenteschi. Abbiamo ereditato delle metropoli interamente plasmate negli spazi, nelle relazioni socioeconomiche, nelle potenzialità e limiti, sul predominio assoluto dell'automobile, anche quando essa viene artificiosamente espulsa da qualche piccola o grande «isola», pedonale o di reti collettive. Se vogliamo ridiscutere questo primato dell'auto, è solo ideologico e ottuso agire via via su un solo fronte, vuoi escludendo autoritariamente i veicoli da qualche fettina urbana, vuoi auspicando più trasporti pubblici, piste dedicate al ciclismo, veicoli «sostenibili». Occorre prima di tutto formulare un possibile nuovo equilibrio di massima tra spazi, flussi, attività, quello sì valutabile e programmabile in quanto tale. Il resto sono solo dettagli. Enormi, certamente, ma enormi tessere dell'unico mosaico dotato di qualche senso.

Sul sito di urbanistica e cultura Eddyburg ho provato a fare un esempio pratico di questa schizofrenia concettuale urbanistica-trasporti che ancora ci limita, forse per eccessiva autoreferenzialità politica di qualche satrapino locale.
 

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