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Giovedì, 28 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Urbanistica e Costituzione

Qualche anno fa un esponente di spicco del nostro capitalismo industriale nazionale buttava lì, in qualche dibattito collaterale ai vari progetti di riforma costituzionale sempre teoricamente accesi, l'idea di eliminare del tutto il riferimento alla «utilità sociale della libera intrapresa», sostituito dalla legittimità in assoluto di questa libera intrapresa: il vantaggio del singolo era già, secondo questa opinione, di per sé vantaggio della collettività, su cui in qualche modo sarebbe ricaduto attraverso i meandri misteriosi della Mano Invisibile del Mercato, o magari per i credenti della Divina Provvidenza. In altri periodi di minore adorazione per il capitale e le sue infinite prospettive per l'umanità tutta, una sparata del genere avrebbe da sola suscitato un vespaio di contestazioni e magari spinto sul serio, a qualche profondo ripensamento costituzionale sull'equilibrio pubblico-privato, individuale-collettivo, come quello che ogni giorno si ridefinisce nell'idea di città, di solito a nostra quasi totale insaputa. Eppure dovrebbe essere evidente sino all'ovvio, dal furgonista che ci sbarra tranquillamente la strada perché «devo lavorare», a chi sconvolge magari per anni gli equilibri di un intero quartiere perché «porta tanti posti di lavoro», che proprio lì starebbe il punto: nella consapevolezza di riuscire a stabilire e controllare quello spazio-flusso nel senso di un ragionevole, condiviso equilibrio di riferimento. In sostanza è così sin dal principio della modernità urbana.

Si considera un paradigma dell'urbanistica moderna il cosiddetto Piano del Commissari per le Strade di Manhattan approvato nel lontanissimo 1811, e che traccia lo schema a scacchiera esteso all'infinito di strade e viali tutti perpendicolari. Uno schema che ha attraversato indenne più di due secoli di evoluzione urbana, umana, tecnologica, politica, e che non deve questa sua eterna vitalità agli angoli retti o alle scansioni rettangolari (come pure pensa sempre qualche geometra dell'anima da parecchie generazioni), ma sostanzialmente dall'indifferenza urbana, spaziale, territoriale in senso lato, del suo ideatore. Né ingegnere, né cartografo-surveyor, il possidente terriero Gouverneur Morris che quella Commissione Strade di New York la presiede e guida con mano ferrea, è invece un cultore del diritto, e che fior di cultore se il gruppetto di élite borghese post-rivoluzionaria gli ha affidato pochi anni prima il compito di redigere di proprio pugno la Costituzione degli Stati Uniti d'America! E cosa fa, una volta incaricato di coordinare quel «progetto strade» che pareva un lavoretto da geometra? Lo trasforma in una vera e propria Costituzione Spaziale Urbana, che come qualunque costituzione non fantasiosa ed effimera deve saldamente affondare le radici nella storia.

Una storia che è pochissimo urbana, e allora da un punto di vista spaziale quella griglia altro non è che una «agrimensione», identica nello schema a tanti frazionamenti di tenute effettuati in quell'area nel secolo e mezzo di colonizzazione. Salvo che stavolta l'obiettivo è fissare una regola generale di convivenza, e allora le proporzioni, l'orientamento, e l'estensione all'infinito stanno a significare ben altro che dividere poderi. Ma soprattutto si segna in linea di massima il confine tra lo spazio dell'interesse privato (dei lotti rettangolari edificabili) e lo spazio-flusso di relazione e movimento publico della via, spropositatamente ampia se l'idea fosse semplicemente di farci passare pedoni e carri che si spostano tra i futuri quartieri, o al massimo trasportano merci dal Porto di New York verso l'hinterland. Uno schema che fissa, definitivamente, costituzionalmente, l'equilibrio pubblico privato, storicamente fondato e per questo in sostanza destinato a durare molto. Esattamente come accaduto, sino ai nostri giorni, quando su quelle Street e Avenue scorrono i flussi immateriali wireless invece dei carri, e negli isolati sorgono le quinte generazioni dei grattacieli invece delle casupole di legno a uno o due piani. E viene da chiedersi: quando riflettono sull'idea di città, quando magari si trovano a decidere se una trasformazione si sbilancia più sull'interesse privato o su quello pubblico, i nostri decisori ce l'hanno, un'idea così salda? Domanda retorica.

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