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Martedì, 16 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Vandalismi urbani e partecipazione nell'era del social

Un quotidiano locale titola «Sfregio alla piazza ridata ai cittadini solo un mese fa», e tutto parrebbe tristemente nella norma, se non facesse sorgere nel lettore criticamente attento almeno un paio di questioni diciamo così filologiche: i cittadini che hanno perpetrato l'orrido sfregio sono gli stessi a cui la piazza era stata ridata? Oppure sono altri? Oppure non sono affatto cittadini, ma esseri inferiori immondi di cui liberarsi al più presto? Proviamo ad affrontare le domande una per una, sistematicamente, come se stessimo conducendo una specie di questionario virtuale.

  1. I cittadini sono gli stessi?

    Immaginiamo che i cittadini autori del misfatto (per dirla breve, è stata distrutta una pesante panchina di pietra parte integrante e caratterizzante del rifacimento) siano gli stessi a cui la piazza era stata «ridata». Le motivazioni del gesto, consapevole o no, starebbero nel rifiuto di quella restituzione: io ti ho chiesto indietro una cosa, e tu me la ridai conciata in quel modo? Ma io te la rompo in testa, altro che ringraziarti, pezzo di cretino! Il che, detto in termini meno folk da dialogo quotidiano, si può tradurre con: i rappresentanti tecnico-amministrativi responsabili della trasformazione urbana hanno interpretato malissimo la propria delega, non sanno ascoltare quel che gli si chiede. Nel tempo della «interattività da social network», con tutti i politici che si vantano di essere in contatto quotidiano con la propria constituency, un sintomo del genere appare al tempo stesso grave e ridicolo.

  2. I cittadini sono altri?

    La seconda possibilità che si pone, è che i cittadini autori della distruzione vandalica vengano «da fuori», ovvero non corrispondano alla dizione corretta del termine «cittadini» così come interpretata dai decisori, da chi insomma ha deciso progettato e realizzato quella riqualificazione-restituzione così sfregiata. Il che introduce in modo abbastanza diretto una duplice interpretazione, conservatrice o progressista, del fatto. Quella conservatrice sta nel solco del classico padroni a casa nostra: l'alieno invasore già responsabile del degrado passato, ha perfettamente interpretato il gesto della riqualificazione come mirante a escluderlo da quel luogo, e reagisce ricominciando il degrado, ri-adattandolo a sé. Insomma da una prospettiva di destra il progetto esclusivo va benissimo com'è, e va anzi rafforzato. Da una prospettiva progressista, inclusiva, partecipativa, al contrario, leggere il gesto distruttivo come invasione aliena significa ammettere implicitamente una sconfitta: quella trasformazione, per il semplice fatto di essere detestata, di non suscitare appartenenza, di essere disprezzata, è un fallimento politico e progettuale. E apre all'ultima possibilità, diciamo così costruttiva.

  1. I vandali non sono cittadini?

    Se i vandali autori della distruzione non sono cittadini, è perché non si sentono tali, e perché non vengono considerati tali da chi ha realizzato lo spazio che li esclude. I loro bisogni, qualunque essi siano, sono stati esclusi dal progetto, le loro istanze, comunque espresse, non sono state ascoltate, forse neppure considerate una realtà. E di nuovo, se l'obiettivo era di stabilire in quel luogo una piazzaforte inespugnabile del proprio «senso comune» di gruppo, lobby, parte politica, maggioranza, si tratta semplicemente di continuare così, respingendo gli assalti e rafforzando tutta l'esclusività possibile e immaginabile. Se invece vogliamo essere coerenti con tante dichiarazioni di qualità inclusiva dello spazio pubblico, del ruolo pedagogico dell'urbanità intesa come impasto di luoghi e percezioni condivise, allora qualcosa di importante che non funziona c'è di sicuro, se qualcuno dentro quello spazio «restituito» non lo sente affatto come restituito a sé.

In definitiva, chi nell'epoca del social network e dell'interazione quotidiana crede ancora che si possa interpretare in modo del tutto discrezionale e parziale, il bisogno di esprimere cittadinanza secondo tante prospettive diverse, forse dovrebbe prestare maggiore ascolto a chi pone banali questioni del tipo: Quale è il problema? Siamo sicuri che quella soluzione sia l'unica possibile? Siamo sicuri che esistano sempre soluzioni «chiavi in mano» applicabili con un click? Ogni giorno, in migliaia di città, domande del genere inevase finiscono per provocare molti più guai di quelle del passato, se non altro perché l'impermeabilità a rispondere salta molto all'occhio.

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