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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Variazioni su un Parco a Tema

Col titolo che ho scelto per questa puntata del blog, il critico Micheal Sorkin nei primi anni '90 tentava, con l'aiuto di una mezza dozzina abbondante di altri studiosi, di dipingere il relativamente fosco futuro delle città (con particolare riguardo a quelle americane, ma sappiamo di non vivere sulla Luna), mentre da un lato giungevano alla fase matura gli errori di un XX secolo dominato dallo zoning esclusivo segregato e dalla dispersione territoriale, dall'altra si delineavano reazioni e alternative molto probabilmente inadeguate alla dimensione e qualità dei problemi. Il saggio forse più noto di quella raccolta, almeno dalle nostre parti, resta quel «Fortezza Los Angeles» dove l'esordiente Mike Davis poneva le basi per il suo successivo fortunatissimo «Città di Quarzo», stigmatizzando l'esplosione sociale e spaziale che di lì a pochissimo sarebbe diventata addirittura oggetto di un film blockbuster come il «Giorno di Follia» con Micheal Douglas, automobilista inopinatamente appiedato che, in pratica, scopre l'esistenza della sua città, non reggendo all'urto degli stimoli. Ma c'erano già stati tanti altri avvertimenti, sul fatto che l'approccio meccanico razionalista non solo era fallito nel merito, ma anche quel metodo tutto tecnico (e pochissimo politico) di avvicinarsi ai contenitori sociali complessi era da rivedere radicalmente. E ben oltre il vago ritorno all'ordine classico intravisto con le architetture sedicenti «post-moderne».

Ma torniamo al senso del titolo, ovvero della città esplosa e ridotta a una sequenza di segregati «parchi monotematici» che goffamente provano a lucidarsi al proprio interno, colpevolmente ignorando sia ciò che sta loro attorno, sia il fatto che senza complessità e interazione si muore. Succede caratteristicamente alle nostre città d'arte italiane, in avanzata fase di estinzione in quanto tali, a meno appunto di non considerare come certi distratti architetti «città» tutto quanto va dai due edifici in su. La morte urbana, storicamente incombente su Venezia, ovvero la compiaciuta trasformazione in qualcos'altro, riguarda sia ciò che accade dentro che i flussi di relazione col fuori, naturalmente. Di fatto il timore già espresso a modo suo dal futurista Filippo Tommaso Marinetti, quando auspicando una vitale città meccanico-industriale alla Tony Garnier, o al futuro le Corbusier, stigmatizzava: «Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo». Perché questo aveva iniziato ad accadere, nonostante tutto, ovvero la riconversione in parco a tema specializzato nella nostalgia e nei chiari di luna, e tendenzialmente ad espellere tutto il resto «fuori».

Cosa facile già in epoca non ancora di turismo di massa globalizzato-locale, vista la posizione geografica unica della città lagunare, ma che poi grazie a tante innovazioni tecnico-sociali abbiamo visto replicarsi in innumerevoli centri storici, quelli stessi che oggi lamentano snaturamenti, spopolamento, riduzione monofunzionale e quindi anche estrema fragilità se per un motivo qualunque si interrompessero quei flussi. Insomma: che una città o una parte essenziale di essa si riducano a una specie di Coney Island al contrario (l'amministrazione Bloomberg, là, ha molto diversificato anziché semplificare sulle giostre), pare ovvio e naturale, salvo agli speculatori e ai politici miopi e strabici. Colpisce invece che un centro sinora sostanzialmente immune da quel destino, come Milano, stia cercando col progettone di riapertura dei Navigli di inseguire esattamente il modello del parco a tema, diventare «Una promenade per la movida» come entusiasti e fessacchiotti titolavano i giornali alla presentazione dello Studio di Fattibilità. Studio che, partendo dal presupposto che tutto sia bellissimo, e gli unici problemi da porsi siano tecnici, finanziari, e al massimo trasportistici, non pare essersi posto il vero quesito: che città vogliamo? Tornando alle sprezzanti ma ragionevoli invettive di Marinetti, una «calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali, [...] cloaca massima del passatismo»? E soprattutto, chi l'ha deciso, senza confrontarsi seriamente con la società, locale e meno locale?

Su La Città Conquistatrice il tema Sviluppo Locale di solito si affronta in termini un po' più ampi, delle vedute pittoresche o della rivalutazione immobiliare da movida 

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