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Venerdì, 29 Marzo 2024
Città conquistatrice

Città conquistatrice

A cura di Fabrizio Bottini

Villaggio Vacante per Convalescenti

Rispunta la dimensione urbana del quartiere, e non si sa se esserne un po' contenti giusto perché «io l'avevo detto», o un po' perplessi perché potrebbe essere l'ennesima antistorica scoperta dell'acqua calda e occasione persa. Perché da un secolo molto abbondante a questa parte la cosiddetta riscoperta della comunità ha esiti diversi a seconda di chi la riscopre come lo fa e soprattutto perché lo fa. Ma andiamo con ordine e con l'indispensabile sommario riassunto delle puntate storiche precedenti per chi si fosse sintonizzato sul tema in questo momento. Il capitalismo industriale per usare le parole un po' crucche ma realisticamente dirette di Karl Marx, strappa milioni di contadini dallo «idiotismo della vita rustica» delle comunità di villaggio scaraventandoli nel frullino della metropoli. Ma loro per reazione provano a conservare anche lì qualcosa di evidentemente più difficile da sradicare, come le relazioni intermedie spazio-sociali della famiglia allargata, o della domesticità allargata, che dal villaggio si erano trascinati dietro. Così nasce l'idea di quartiere, prima solo intuito e rilevato dalla sociologia urbana, quella tedesca a fine '800 e meglio ancora la Scuola Ecologica di Chicago nel primo '900. Da quegli studi nascono poi alcune idee di progetto architettonico-urbanistico: la Ward di Raymond Unwin negli schizzi per la Città Giardino, o la Neighborhood Unit del misconosciuto ma anticipatore William Drummond al concorso per il «quartiere modello» bandito dal comune di Chicago nel 1914.

Tutte interpretazioni di progetto che troveranno sistemazione teorica, insieme alle altre di tipo sociologico, nello studio con cui Clarence Perry nel 1925, prendendo a prestito il nome Neighborhood Unit (ma senza dirlo) da Drummond, fisserà e metterà il copyright su un modello socio-spaziale: alcune migliaia di abitanti, collocate attorno a un nucleo di servizi organizzato sulla scuola, in un raggio di circa mezzo chilometro non interrotto da arterie stradali importanti. La prestazionalità si calcola più o meno nella possibilità-disponibilità a fruirlo in sicurezza, quel quartiere, per le funzioni quotidiane, percorrendolo a piedi per andare e tornare da scuola, dal parco, dai negozi, a una riunione di comitato o a un concertino del dopolavoro. Ma quasi subito qui entrano di nuovo in campo gli architetti, col solito atteggiamento di monopolisti delle «cose urbane» purché le si riduca tutte alle forme fisiche. E l'impasto virtuoso tra gli aspetti sociali e quelli spaziali, virtuoso perché come la vecchia comunità spontanea riesce a evolversi e ad essere resiliente al cambiamento, finisce di essere tale. Per un bel pezzo del secolo scorso le discussioni sul quartiere autosufficiente o vicinato esplodono in due o più filoni: uno che riguarda i servizi e le varie relazioni, l'altro le forme esteriori degli alloggi, o degli edifici che i servizi li contengono. Mentre peraltro cambia radicalmente anche la città, fatta esplodere dall'automobile che annulla di fatto quel fondativo raggio di mezzo chilometro, diventato privo di senso con l'obsolescenza vera e propria della pedonalità.

Ergo la stessa parola «quartiere» finisce di esistere se non in un vago immaginario, o meglio in diversi immaginari scientifici, politici (per esempio con le circoscrizioni di decentramento), partecipativi, di nuovo di progetto architettonico coi quartieri di iniziativa pubblica e/o privati coordinati. Oggi una curiosa nuova idea di quartiere risponda dal nulla, o meglio da un ancora indefinito immaginario assessorile, come abbastanza coerente risposta alla Fase Due dell'emergenza sanitaria. Esattamente come alle origini, quando spontaneamente si tentava di riprodurre la comunità di villaggio epurata dallo «idiotismo della vita rustica», qui si tratta di allargare la domesticità e la famiglia verso relazioni più ampie, sociali e spaziali, che fungano da interfaccia sicuro col più vasto mondo del mercato, della metropoli, delle relazioni globali e via dicendo. Si legge che sono state fissate quote di popolazione (come facevano strumentalmente gli architetti nei decenni scorsi prima di partire in tromba col progetto solo spaziale), ma onestamente non se ne colgono altri spunti logici: le eventuali distanze massime quali comportamenti corrispondono? Dove comincia e dove finisce un quartiere così concepito? E chi se lo vede assegnato come casa allargata dentro cui stare semi-segregato per un bel po' cosa ne pensa? Speriamo almeno che domande del genere se le ponga, chi ci sta prefigurando il futuro prossimo di convivenza forzata, sia con la pandemia che con lo stupido gatto dei vicini.

La Città Conquistatrice – Unità di Vicinato

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