Day of the Fight riporta l’epica della boxe a Venezia
Dopo The Featherweight, ci pensa Jack Houston a omaggiare la nobile arte come metafora della vita. Day of the Fight è un intenso, commovente e sovente epico racconto sulla boxe che diventa specchio di un’esistenza da analizzare, riqualificare e ricomporre. Michael Pitt si dedica anima e corpo ad un protagonista che richiama ai grandi classici del passato, compensano un iter narrativo che da metà in poi tende ad abbandonare il realismo per sposare il consolatorio.
Un pugile irlandese perso dentro un gorgo esistenziale
Per Mikey (Michael Pitt) la vita da pugile pareva quella giusta. Cresciuto nella New York in crisi e violenta degli anni ’80, con un padre violento (Joe Pesci) ed una madre scomparsa quando era ragazzino, ha trovato però sul ring la chiave di volta della sua vita. Per un po’ è stato Campione del Mondo, idolo della città e del suo quartiere di irlandesi, ma poi l’alcool e la morte del figlio per un incidente stradale, hanno mandato in frantumi la sua vita. Ora, 10 anni dopo il suo ultimo match, cerca come può di trovare il riscatto. C’è un combattimento dove è dato perdente per 40 ad 1 contro il Campione in carica, c’è l’ex moglie (Nicolette Robinson) con cui vuole ricucire un minimo di rapporto umano. Ma soprattutto c’è la concreta possibilità che muoia sul ring, visti i postumi dell’incidente. Al Madison Square Garden, tempio della boxe, Mikey dovrà cercare non solo di vincere, ma di riscattare la sua vita ai margini. Day of the Fight comincia con un taglio quasi neorealistico, molto urban, adornato da un bellissimo bianco e nero di Peter Simonite che ci guida nella Grande Mela depressa, diroccata, fatta di cemento, pozzanghere e falliti. La regia di Houston è molto buona, sa far arrivare ogni singolo personaggio con un paio di tagli d’immagine, valorizza la location al massimo e rende il viaggio di Mikey (quello fisico) un prolungamento di quello psicologico in modo molto empatico. Tuttavia, a mano a mano che si va avanti, il film smette di essere realistico tout court, dolente e soprattutto psicologicamente profondo, opta invece per il ritorno all’epica consolatoria, una scelta che oggettivamente si poteva evitare e che per poco non manda all’aria ciò che di buono Day of the Fight aveva offerto fino a quel momento.
Un film buono ma che poteva essere anche migliore
Michael Pitt è un attore atipico. Ad inizio carriera, con quello sguardo freddo da cucciolo e il suo talento in sottrazione, pareva per molti destinato a diventare il nuovo Di Caprio. Non è successo, ma in compenso si è connesso ad alcuni dei prodotti autoriali su piccolo e grande schermo più autentici. Questo Day of the Fight non fa eccezione e gli permette di mostrare al sua meravigliosa capacità di donare realtà e verità ad un sopravvissuto al sogno americano. Sono enormi i riferimenti Rocky, a Toro Scatenato, Southpaw, ma in realtà la storia di Mikey, è la storia che tanti veri pugili hanno dovuto conoscere, con l’oblio un passo dopo la massima gloria. Cast di contorno eccezionale, con Ron Pearlman, Steve Buscemi e soprattutto Joe Pesci, padre ormai distrutto dall’Alzheimer e che nelle sue mani è protagonista della scena più toccante e straziante del film. Il combattimento, quando arriva, è mal congegnato e mal diretto, l’impressione è di una certa approssimazione, di un accontentarsi di ciò che è stato fatto fino a quel momento. Peccato, per quanto poi sia chiara l’intenzione di Houston di infondere speranza, per quanto agrodolce, in virtù di un finale che poi è diverso da quello classico alla Hollywood. Giusto il posizionamento in Orizzonti Extra qui a Venezia 80, perché Day of the Fight per quanto curatissimo visivamente, manca della capacità di essere puro e senza mediazione fino alla fine. Rimane ad ogni modo un film che una visione la merita di sicuro, non fosse altro per ricordarci cosa si nasconde dietro il mito degli eroi del ring. Quasi sempre sono come Mikey: in lotta contro l’avversario più terribile, quello che si nasconde dentro lo specchio.