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Giovedì, 28 Marzo 2024
Suicidi

Due agenti di polizia penitenziaria si tolgono la vita in poche ore: "Sconvolgente"

Il primo caso è un drammatico omicidio-suicidio, nel secondo a togliersi la vita è stato un assistente capo di 45 anni in servizio a Milano. Ne dà notizie il sindacato di polizia, che si chiede anche se lo stress possa in qualche modo aver contribuito alle tragedie

MILANO - Due tragedie in poche ore che colpiscono agenti di polizia penitenziaria e le loro famiglie. In uno dei casi, a togliersi la vita è stato un agente originario di Calimera (Lecce), sebbene lavorasse da tempo a Milano.

A diffondere la notizia è, nel pomeriggio di ieri, il Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), che trova la situazione allarmante, pur nella consapevolezza che è ancora prematuro cercare di individuare le cause precise per entrambi gli episodi.

Il primo caso è un drammatico omicidio-suicidio avvenuto in un’abitazione di Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, dove appartenente al corpo di polizia penitenziaria ha ucciso la moglie, per poi togliersi la vita. Ma, nel giro di poche ore, ecco un secondo caso che vede coinvolto un agente.

“Un altro poliziotto penitenziario si è suicidato oggi. Si tratta di un assistente capo di 45 anni in servizio alla casa circondariale di Opera e impiegato al Nucleo traduzioni e piantonamenti di Milano”.

A dare la triste notizia, Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Si è tolto la vita poco fa a Milano con l’arma di ordinanza. L’uomo, originario di Calimera, più di vent’anni di servizio nella polizia penitenziaria, divorziato, persona seria e apparentemente tranquilla – prosegue Capece -, è stato trovato nel primo pomeriggio di oggi nel garage di casa”.  

LE STRESS CAUSA DI TANTE TRAGEDIE? - “Due casi di suicidio, uno pure aggravato da un omicidio, sono sconvolgenti”, aggiunge il leader del sindacato. “Tragedie che, ogni volta che si ripetono, determinano in tutti noi grande dolore e angoscia. E ogni volta la domanda che ci poniamo è sempre la stessa: si poteva fare qualcosa per impedire queste morti? Si poteva intercettare il disagio che caratterizzava questi uomini e, quindi, intervenire per tempo?”.

Capece sottolinea che “allo stato non è possibile dire quali siano state le ragioni che hanno portato l’uomo a questo tragico gesto, e quindi non sappiamo se possano eventualmente esseri anche ragioni professionali”.

“Certo è - aggiunge - che è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese mentre il fenomeno, colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette “professioni di aiuto”, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni di stress alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza”.

“Il riferimento - prosegue - è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli con i loro vissuti, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi e ad occuparsi di vari stati di disagio familiare, di problemi sociali di infanzia maltrattata ovvero tutto quel mondo della marginalità che ha bisogno, soprattutto, di un aiuto immediato sulla strada per sopravvivere”.

“L’amministrazione penitenziaria non può continuare a tergiversare su questa drammatica realtà”, conclude Capece. “Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di polizia penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della polizia penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti”.

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