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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Il delitto di Garlasco / Pavia

Alberto Stasi rompe il silenzio

Condannato a 16 anni per l'omicidio della fidanzata Chiara Poggi, l'ex bocconiano ribadisce la sua versione dei fatti e accusa il sistema: "La mia coscienza è leggera, togliere la libertà a un innocente è violenza"

"Perché ho deciso di parlare oggi? Per dare un senso a questa esperienza perché certe cose non dovrebbero più accadere. Se una persona vive delle esperienze come quella che ho vissuto io questa deve essere resa pubblica, a disposizione di tutti, e visto che ho la possibilità di parlare lo faccio, così che le persone capiscano, possano riflettere e anche decidere, voglio dire, se il sistema che c'è va bene oppure se è opportuno cambiare qualche cosa". Dal carcere di Bollate, dove si trova rinchiuso per l'omicidio di Chiara Poggi, Alberto Stasi, oggi 38enne, rompe un silenzio che dura ormai da anni. Lo fa in un'intervista concessa a "Le Iene" e che andrà in onda domani, in prima serata, su Italia 1, nel corso di una puntata dedicata interamente  a uno dei casi di cronaca nera più discussi nel nostro Paese.

"Chi mi chiede se ho ucciso Chiara non sa di cosa parla"

Sull'omicidio di Garlasco dunque tornano ad accendersi i riflettori. Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni di carcere dopo due assoluzioni per l'assassinio della fidanzata, ribadisce con forza la sua innocenza. Tra le prime domande dell'inviato c'è quella del se sia stato lui a uccidere l'allora fidanzata. "Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara penso che non sanno di cosa stanno parlando", risponde Stasi. 

"Sembrava di remare contro un fiume in piena andando controcorrente, fin dall'inizio: una volta lo scambio dei pedali, un'altra volta il test solo presuntivo, e l'alibi che mi viene cancellato, l'orario della morte che viene spostato". Un duro j'accuse al sistema giudiziario quello di Stasi che è in carcere ormai da sette anni. "Che verità c'è in tutto questo? Io sono stato assolto in primo grado, sono stato assolto in appello, sull'unica condanna il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha chiaramente detto 'Non si può condannare Alberto Stasi', quindi, in Italia hanno un sistema che a oggi funziona così: la pubblica accusa dice 'No, questa persona va assolta' ma, nonostante questo, la persona viene condannata". 

Stasi, unico a sedere sul banco degli imputati per l'omicidio della fidanzata Chiara, venne stato assolto in primo e secondo grado dall'accusa di omicidio. Due sentenze, però, poi annullate dalla Cassazione che aveva chiesto un nuovo processo per dissipare i dubbi, con nuove indagini e l’acquisizione di nuove prove. Poi arrivò, nel 2015, la condanna a sedici anni di reclusione nel processo di secondo grado bis confermata anche dalla Cassazione. Per la giustizia il caso è chiuso. Per l'ex bocconiano no. Stasi ripercorre il suo primo interrogatorio, il giorno dell'arresto, e poi la scarcerazione "dopo quattro giorni, con un'ordinanza del giudice che smontava punto per punto quel provvedimento assurdo (...)".

"La mia coscienza è leggera, non ho nulla da rimproverarmi"

Stasi è convinto che quell'episodio abbia segnato in maniera irreversibile tutta la vicenda processuale successiva e che abbia gettato nell'immaginario collettivo e, secondo lui forse anche in parte della magistratura, il seme della sua colpevolezza. "Nell'immaginario comune un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all'ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi. Certo, ti senti privato di una parte di vita perché togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l'hai subita e basta, non è colpa tua".

Dopo sette anni di reclusione, Alberto Stasi guarda al futuro. "Oggi ho 38 anni e ho in mente di mettere a frutto tutte le esperienze negative che ho vissuto, un bagaglio conoscitivo che non può essere acquisito diversamente. Certe cose non le puoi metabolizzare se non le vivi. Se hai la fortuna, o sfortuna, a seconda del punto di vista, di vivere certe esperienze, acquisisci degli strumenti che puoi mettere a disposizione e io voglio fare questo. È un impegno diverso rispetto a quello che potevo desiderare quando avevo 24 anni, in cui volevo fare carriera nell'azienda più grande d'Italia, tanto per fare un esempio".

Infine, "Cosa vorrei dire ai giudici che mi hanno condannato? Non saprei perché sono, in qualche modo, e in negativo, i protagonisti di questa vicenda. È difficile arrivare alla mente e al cuore di quelle persone. Il loro non è un mestiere banale, ha conseguenze sulla vita delle persone, come un medico in sala operatoria: ci sono lavori che non comportano queste responsabilità, altri invece sì. Se si decide di intraprendere un certo lavoro, una certa carriera, deve essere fatto in modo coscienzioso perché poi anche lì entrano dinamiche normali, di lavoro. La carriera, l'ambizione, il posto in un'altra sede, tutte cose che non dovrebbero avere nulla a che fare con la giustizia".

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