Baby gang, i cattivi ragazzi li abbiamo cresciuti noi
Quindicenne picchiata da coetanee, minorenne minacciato con una mannaia e rapinato da altri ragazzini, spacciatori under 18 ricattano la mamma di un giovane cliente. Sono solo tre delle notizie finite sui giornali nelle ultime settimane. Le cronache sono piene di resoconti sulle "prodezze" delle baby gang. E no, non è colpa dei giornalisti che fanno allarmismo e cercano il titolo a effetto, è solo una parte della delinquenza giovanile che c'è nelle nostre città. Molti casi restano "nascosti", non sono denunciati, non portano ad arresti o denunce.
Secondo i dati dell'Osservatorio nazionale sull'adolescenza, istituito presso il ministero per la Famiglia, il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso atti vandalici, 3 ragazzi su 10 hanno partecipato a una rissa (aggiornati a marzo, ndr). Nord, Centro, Sud; italiani o stranieri; reddito medio basso o alto. Gli episodi sono trasversali. In base ai territori possono variare le dinamiche e le bande possono essere più o meo strutturate ma non ci sono aree immuni. E quanto più inglobano storie e vissuti diversi, tanto più dovremmo iniziare a riflettere. Il fenomeno "baby gang" non è un'espressione da trattato di sociologia, non è (solo) un report sulla scrivania di qualche funzionario delle forze dell'ordine. Baby gang sono ragazzi cresciuti nelle nostre case che delinquono, sono la testimonianza di un fallimento collettivo.
"I gruppi di ragazzi che compiono atti violenti - spiega Silvana Quadrino, psicoterapeuta della famiglia e autrice per il magazine pediatrico Uppa - .sono sempre esistiti perché è innegabile che in età giovanile esista una tendenza ad aggregarsi per trasgredire o per esercitare violenza. Ma se negli anni '70, '80 o '90 i gruppi si contrapponevano a partire da caratterizzazioni di appartenenza (i mods e i rocker, i paninari ecc.), oggi il gruppo si aggrega per esercitare una violenza gratuita nei confronti di una singola persona, generalmente identificata come debole. Questo è preoccupante perché lo spirito del gruppo è quello di umiliare, di esercitare potere su una persona che non si difende. E' una dinamica abbastanza caratteristica di questo momento storico e non ha precedenti".
"La violenza giovanile e delle baby gang è un problema che noi vediamo su tutti i territori. Dobbiamo fare di più, ma dobbiamo fare soprattutto a livello culturale perché occorre che ci sia una società più reattiva, che ci sia anche l'impegno dei Comuni. Non può essere solo repressione, ci vuole la prevenzione e la prevenzione sono una serie di attività che devono essere messe in campo sul territorio", ha detto nei giorni scorsi il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese.
Non solo repressione. E sì, su questo di basa in realtà anche il nostro sistema carcerario. Lo scopo è quello di riabilitare chi sbaglia, rieducare, rimettere in carreggiata. Quando si tratta di minorenni, il punto è fare in modo che non arrivino proprio a infrangere le leggi. Famiglia, scuola, istituzioni locali dovrebbero muoversi insieme in modo compatto per instradare i giovani ed evitare che diventino "schegge impazzite". Da un lato, complici anche ritmi sempre più frenetici, le famiglie hanno perso il contatto con i più giovani. Il dialogo appare merce rara, oscurato dalla luce emanata da telefoni e computer. Le parole sono soppiantate dai like, dalle "storie" social. E' caduto il concetto di limite perché sono sempre meno i genitori che, imposto un divieto, lo fanno rispettare. Per farlo ci vogliono tempo, costanza, voglia. Spesso mancano e i motivi possono essere mille, nessuno vuole intentare un processo alle intenzioni contro madri e padri. La scuola da sola ha ben poco margine. Centri di aggregazione giovanile, luoghi dove praticare sport non sono diffusi come dovrebbero. C'è poi una fetta di popolazione che non può permettersi di impegnare i figli in attività extrascolastiche perché costano. E questo è un problema che dopo la pandemia si è acuito. Molte strutture hanno chiuso i battenti, porte chiuse significa anche ragazzi soli.
Dovremmo allora ragionare sulla necessità di agire e farlo concretamente su più direzioni: risaldare l'asse scuola famiglia, rendere "normale" la presenza di psicologi e altre figure di sostegno, potenziare programmi di doposcuola, sport, arte. E, per i ragazzi che "perdiamo per strada", prevedere percorsi di riabilitazione reali. I cattivi ragazzi non sono "altro" da noi, sono una nostra responsabilità.