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Martedì, 23 Aprile 2024
Cronaca

La beffa dei villaggi di solidarietà: "L'inclusione è fuori dal campo"

La popolazione Romanì non è nomade. Al contrario i rom nei Paesi di provenienza vivevano nelle case. Ardolino: "Il campo esclude e crea apartheid. Segregare inoltre costa. Politiche che vanno in una direzione diversa sono state messe in atto, per esempio, a Bologna, Firenze e Reggio Calabria"

Sono 40 mila i rom che vivono nei campi o negli insediamenti abusivi, su un totale di circa 200 mila rom presenti in Italia. Basterebbero questi dati, frutto di stime approssimative fatte da associazioni e studiosi, per capire perchè i villaggi di solidarietà sono frutto di una politica sbagliata. I numeri ci danno infatti un'informazione inequivocabile: i rom non sono nomadi ma al contrario vivono nelle case. Se la matematica non è un'opinione basta una semplice sottrazione per capire che sono più di due terzi i rom che abitano fuori dagli insediamenti regolari o abusivi; la maggior parte della popolazione. Non hanno quindi alcun senso le attuali politica dei campi o villaggi di solidarietà che dir si voglia, mera prerogativa italiana. Così come non ne aveva l'assunto alla base di tutte le leggi regionali degli anni '80, le prime ad instituire e regolamentare i campi "per tutelare l'etnia e la cultura dei nomadi". "L'errore di fondo emerge ancora più chiaramente - spiega Antonio Ardolino, operatore e studioso di politiche di emarginazione sociale, da anni in prima linea anche all'interno dei campi sparsi per il Belpaese - nell'ordinanza prefettizia del 2008 che attuava la Dichiarazione dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nella Regione Lazio all'interno della quale si giustificavano i campi 'a causa della presenza di numerosi cittadini extracomunitari irregolari e nomadi che si sono stabilmente insediati'. Nomadi stabilmente insediati, una contraddizione in termini ma, soprattutto, l'espressione più evidente di una politica che per trent'anni ha continuato a emarginare prima e a segregare poi migliaia di persone".

LA STORIA. Se i numeri non dovessero bastare per capire che i rom non sono nomadi basta studiare la storia di questo popolo per fare chiarezza. Spiega il professor Spinelli, unico docente universitario in Italia di cultura Romanì, oltre che musicista: "La popolazione Romanì è stata perseguitata, per questo nei secoli si è dovuta spostare. La prima migrazione fu l'unica dovuta alla carestia. Alcuni rom lasciarono l'India per raggiungere la Persia. Ma poi, a partire dal 1100, i rom hanno subito deportazioni; sono stati schiavi prima della Chiesa e poi dei proprietari terrieri dal 1300 al 1800 in Romania; sono fuggiti dall'ex Jugoslavia colpita dalla crisi economica negli anni '60 e '70 del 900 e dalla guerra nei Balcani degli anni '90. Quest'ultimi due fatti in particolare li hanno portati in Italia. L'apertura delle frontiere della Romania nel 2002 ha fatto il resto".

Il professor Spinelli ritiene come Ardolino che la politica fatta dall'Italia nei confronti dei rom sia sbagliata: "I campi creano segregazione, i rom nei paesi di provenienza vivevano nelle case". "In Spagna i rom gitani non vivono nei campi e sono perfettamente integrati nella comunità", continua Spinelli. Il professore conclude facendo un accenno ai costi "altissimi dei campi che ricadono su tutti noi: si tratta di milioni di euro".

Cosa fare allora? Chiudere i campi e attuare politiche sociali che abbiano una progettualità. "I rom residenti a Roma sono qui quasi tutti per restare. Eppure siamo già alla quarta generazione cresciuta dentro un villaggio. E nei campi detti abusivi quando si decide di intervenire con uno sgombero spesso lo fa senza proporre alternative. Ma le persone sgomberate non vanno via dalla città. Al contrario, spesso, non cambiano nemmeno quadrante, si fermano e accampano a pochi chilometri dal campo sgomberato. Eppure le alternative ai campi esistono".

Le città dove si sta facendo bene. "A Bologna, a Firenze e a Reggio Calabria gli esempi di politiche che sono andate in direzione diversa a quella dei 'villaggi di solidarietà' romani. Essenzialmente progetti costruiti sui singoli nuclei familiari destinatari, quindi diversi a seconda di chi si ha davanti: c'è chi ha bisogno di un sostegno scolastico per i figli, chi di un lavoro o chi non ha tutti i documenti a posto. Per condizioni diverse ci vogliono progetti diversi", prosegue Ardolino.

A Bologna, per esempio - si spiega nel libro "Segregare costa", a cura  delle associazioni Osservazione, Compare, Lunaria e di Berenice - quattro strutture di accoglienza sono state chiuse e per favorire l'inserimento abitativo è stata prevista una formula di sostegno ad hoc: il Comune ha stipulato con i privati dei contratti d'affitto 4+4 per poi subaffittare le case ai rom con uno sconto del 50% sulla cifra mensile concordata con il proprietario dell'appartamento. L'obiettivo finale: far firmare dopo cinque anni il contratto direttamente ai rom.

A Torino molte famiglie sono state inserite negli alloggi popolari. A Pisa è stato realizzato il progetto "le città sottili" finanziato nel 2002 dalla Regione Toscana e da singoli Comuni della Provincia che ha portato nel 2009 all'inserimento abitativo del 55% delle persone coinvolte (quasi 300) e ha trasformato il campo in un villaggio composto solamente da 17 unità. Anche Padova è riuscita nell'obiettivo di portare fuori dai campi 350 persone.

"Roma è l'esempio negativo, la città dove il 'problema' è gestito al peggio. Bisogna rompere gli schemi", continua Ardolino. "Il campo esclude e crea apartheid. Il campo si trova in periferia perchè così è stato deciso. E' controllato 24 su 24 come se si trattasse di una reclusione. Esistono regolamenti rigidi anche per poter ospitare un parente o allontanarsi per qualche giorno. E in ogni caso gli altri cittadini devono formalmente farsi riconoscere all'entrata o un permesso per svolgere, ad esempio, un'intervista all'interno".

Segregare costa. I rom nella Capitale sono 7 mila, di cui 3.600 vivono nei campi autorizzati (Il Piano Regolatore Sociale 2011-2015 offre la ricostruzione ufficiale più recente della distribuzione della popolazione rom nelle diverse tipologie di insediamento). Sessantanove milioni di euro sono stati spesi in 6 anni (dal 2005 al 2011) dal Comune di Roma per i campi. Lo dicono i documenti ufficiali. I dati del Dipartimento promozione dei servizi sociali e della salute dicono anche come questi soldi sono stati ripartiti: 19,9 milioni di euro sono stati spesi per la gestione dei campi tramite i cosiddetti “Progetti gestione”, 12,6 milioni di euro per effettuare investimenti, 9,4 milioni di euro per gli interventi curati dall’Ama e 8,1 milioni di euro per la bonifica delle aree. 6,5 milioni di euro sono stati allocati sulla voce “Lavori campi” per gli interventi di manutenzione e 2,4 milioni per servizi vari a sostegno delle famiglie. L’analisi evidenzia che l’amministrazione comunale di Roma negli ultimi anni ha investito gran parte delle proprie risorse “dedicate” alle popolazioni rom nella direzione della costruzione e gestione di grandi “Villaggi della Solidarietà”. Ma a Roma non ci sono sono i villaggi di solidarietà, ci sono anche i campi abusivi che ogni tanto vengono sgomberati. E anche sgomberare costa: per ogni sgombero servono tra i 15 e i 20 mila euro. Non sarebbe meglio per tutti fare un passo indietro sui campi e uno avanti verso l'integrazione?

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