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Venerdì, 19 Aprile 2024

Andrea Perniciaro

Direttore Responsabile Sicilia e Calabria

I funerali di Falcone e quei bambini respinti davanti a scuola, sui banchi iniziò la vera rivoluzione

Ci sono giorni che passano alla storia e giorni in cui ci si rende conto di stare vivendo la storia. Ed è ciò che mi è successo quel 25 maggio 1992, due giorni dopo la strage di Capaci. Un lunedì mattina come altri, per un bambino di 12 anni. Che di omicidi ne aveva già vissuti - o sentiti raccontare - diversi. "E' solo il giorno che muore", cantava Venditti. E' così zaino in spalla sono sceso da casa: venti minuti a piedi circa da via Autonomia Siciliana, angolo via D'Amelio (già!), a via Di Giorgio, a due passi da piazza Don Bosco. Destinazione scuola media Guglielmo Marconi. 

Cielo pumbleo, pioggia a intermittenza. Non proprio usuale per un 25 maggio a Palermo. Come se anche il cielo volesse partecipare a modo suo a quella giornata tremenda. Già durante il percorso avevo iniziato a notare qualcosa di strano, ma mai mi sarei aspettato quello che stava per succedere. Arrivato davanti all'ingresso infatti vedo la maggior parte dei miei compagni ancora fuori. "Strano", penso io. Che come al solito portavo i miei 10 minuti di ritardo. E invece anche chi era arrivato puntuale non era ancora entrato. "Oggi non c'è scuola, tornate a casa", tuonò il vice preside. Siamo nel 1992, dunque niente mail né un messaggio sulla chat di Whatsapp. I professori si presero quel rischio: di mandare dei ragazzini a casa. In qualche caso, come per me che già andavo a scuola da solo, senza che i genitori ne sapessero nulla. "Oggi è il giorno più buio della storia di Palermo - ci disse un'altra professoressa - e noi siamo stanchi di subire in silenzio. Stiamo andando tutti ai funerali di Falcone". 

Io e i miei compagni eravamo smarriti. Da un lato, inutile nasconderlo, anche felici per un giorno di vacanza inaspettato. Che si fa? "Andiamo a casa mia", disse uno. Nel tragitto verso casa sua, in via D'Amelio (l'altra però), ci siamo imbattutti in una colonna d'auto ferme in via Imperatore Federico. Ma nessun concerto di clacson, gli automobilisti erano in civile attesa. Qualcuno abbassava il finestrino per gridarci: "Dove state andando? Tutta la città deve andare ai funerali di Falcone". Ancora. Ma per dei ragazzini di 12/13 anni il richiamo dell'Amiga 500 e un torneo a Sensible Soccer era troppo forte. Eppure mentre giocavamo, nella nostra ingenuità, ne parlavamo e ci chiedevamo: "Cosa è successo di diverso sabato? Perché stavolta è tutto diverso?". In parte lo abbiamo capito guardando il telegiornale con le immagini che arrivavano dalla Cattedrale, ma ancor di più il giorno dopo in classe. 

Già, perché la nostra professoressa di Italiano non appena entrata in aula posò il registro sulla cattedra, ci guardò e disse: "Chiudete i vostri libri". Ne tirò fuori uno dalla sua borsa, ce lo mostrò e con voce decisa ci spiegò: "Oggi leggiamo questo". Era Cose di Cosa di Nostra, il libro di Giovanni Falcone. Da lì iniziammo un percorso che lei definì di "educazione alla legalità". Attraverso le parole di Falcone ci fece capire che la mafia non era una realtà lontana da noi, ma era dentro di noi. Si concentrò sul concetto di "mafiosità" che era insito in alcuni dei nostri comportamenti giornalieri. Dal prevaricare sul compagno più debole al cercare di superare la fila, dal cercare la scorciatoia per ottenere qualcosa più facilmente al non rispetto della cosa pubblica. Si parla di mafia - e di atteggiamenti mafiosi - a scuola. Noi che al massimo avevamo sentito quella parola sibillata, magari insieme alla parola pizzo, in qualche discussione tra adulti. Un cambiamento epocale.

In classe - sempre idea della stessa prof di Italiano - tenevamo un diario. La prima mezzora di ogni lezione era destinata alla scrittura e alla lettura ad alta voce dei nostri pensieri. E spesso - dopo quel 23 maggio - capitava di raccontare comportamenti virtuosi che avevamo avuto. O di rimbrotti fatti ai nostri genitori o ai nostri amici per atteggiamenti che ritenevamo inadeguati rispetto al percorso che stavamo seguendo. Stupidaggini attenzione: si andava dal rimprovero al padre per essersi fermato in doppia fila o al rimbrotto all'amico per aver gettato la cicca della sigaretta per terra. Però la soddisfazione nel vedere l'approvazione della professoressa e dei compagni era uno stimolo a cercare di comportarsi sempre in un certo modo. Ad essere coerenti col percorso che aveamo intrapreso.

In mezzo abbiamo vissuto sia l'incontro con Paolo Borsellino, ospite della nostra scuola in una mattina di metà giugno, sia l'attentato in cui perse la vita. Ma questo non fermò la nostra professoressa, nè i miei compagni, nè me. Che eppure, abitando in uno dei tre palazzi devastati dalla bomba, avevo visto la mafia entrare dentro casa mia. 

Io e i miei compagni abbiamo rinunciato a qualche poesia imparata a memoria, allo studio di qualche autore del '900. Ma ne è valsa la pena. Perché nel nostro percorso di vita ci siamo portati dietro quegli insegnamenti, quelle nozioni ci hanno accompagnato nella nostra adolescenza e nel nostro diventare adulti. Dopo quel 23 maggio la parola mafia abbiamo imparato a conoscerla e a comprenderla, e non più a vederla come qualcosa che era lontana da noi. La mafia, anzi meglio dire l'atteggiamento mafioso, era dentro casa nostra. L'aver fatto capire questo a molti bambini è stata la vera rivoluzione. E come tutte le rivoluzioni è stato necessario, purtroppo, uno spargimento di sangue. 

Mi piace pensare che quei ragazzi che il 29 agosto del 2004 tappezzarono la città di manifesti contro il pizzo siano figli di questo cambiamento culturale iniziato 11 anni prima. Anche e soprattutto sui banchi di scuola. E dunque se celebrare questo 23 maggio serve anche a una sola professoressa siciliana come spunto per educare alla legalità i suoi alunni, che si continui ogni anno a mantenerne la memoria. E se il pegno da pagare sono le passerelle dei politici e l'insopportabile retorica di qualcuno, ebbene dobbiamo essere pronti a pagarlo. Cosa nostra non è più forte come prima, ma la "mafiosità" insita nei nostri comportamenti giornalieri è ancora lontana dall'essere definitivamente sconfitta. 

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