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Venerdì, 19 Aprile 2024
Il caso

"Così hanno rifiutato il nostro sangue gay"

Parla Beniamino, il giovane che si è visto rifiutare una donazione di sangue da un medico dell'Asl perché gay: "Non è neanche riuscito a pronunciare la parola omosessuale ed era convinto che fossimo promiscui. Ma perché?"

LECCE - Gli è sembrato di tornare indietro di decenni, quando in molti facevano ancora fatica ad accettare la sua scelta. Gli è sembrato di essere caduto in uno scherzo. Gli è sembrato poi, quando ha dovuto accettare la realtà, di essere una vittima vera. Vittima della discriminazione e del pregiudizio. Fa ancora fatica ad accettare quello che gli è successo, Beniamino, il giovane leccese che si è visto rifiutare - insieme al suo compagno - una donazione di sangue perché omosessuale. 

"Dono il sangue da quattordici anni, da quando sono maggiorenne - racconta a Today.it il ragazzo - Lo faccio per un altruismo e per tutto quello che significa il gesto in sé. Per questo - ammette - la cosa che mi fa più male è la possibilità, anche remota, che una sola sacca del mio sangue possa essere stata buttata". 

Ma cosa è successo all'ospedale di Galatina, dove un dottore ha deciso di astenersi dal prelevare il sangue suo e del suo compagno Antonio? "Io ho sempre donato a Tricase, dove praticamente non sanno nulla di me. Qualche volta è capitato che sono andato all'ospedale di Galatina. Lì lavora un'infermiera che io conosco da una vita, che stimo e con la quale ho un ottimo rapporto". Sabato mattina, però, evidentemente, qualcosa è andato storto. 

"Quel giorno sono andato a donare insieme al mio compagno e per la prima volta ho detto esplicitamente a questa signora che è un po' di tempo che io e Antonio viviamo insieme. A quel punto lei, e sono convinto che lo abbia fatto più per paura che per voglia di fare del gossip, ha riferito questa situazione al medico". Da lì sono iniziate tutte una serie di stranezze. 

"Per la prima volta in quattordici anni non mi è stato fatto l'emocromo prima di essere ricevuto dal medico e, quando il dottore mi ha chiamato, mi ha chiesto di chiudere la porta dietro di me" racconta Beniamino. "Mi ha detto: 'Credo tu abbia capito che io voglio parlarti della tua condizione particolare di cui siamo venuti a conoscenza". Ma non è mai riuscito a pronunciare la parola omosessuale". Ciò nonostante, il medico "mi ha fatto capire che per prudenza non se la sarebbe sentita di prelevare il mio sangue e che, in base a una normativa, data la mia omosessualità si sarebbe potuto astenere dal concedere la donazione a me e ad Antonio". 

La causa del "no", insomma, sembra chiaramente l'orientamento sessuale di Beniamino e del suo compagno. "Dopo un po' che eravamo nella stanza insieme mi ha chiesto di far entrare anche il mio compagno - racconta il giovane - e ci ha spiegato che il fatto che noi avessimo questo comportamento sessuale lo spaventava e non voleva rischiare che il sangue fosse infetto". A questo punto, quando la motivazione del rifiuto è apparsa chiara, Beniamino ha chiesto spiegazioni e "ho provato a far capire che il fatto che io fossi omosessuale non significasse per forza che io avevo comportamenti promiscui". 

Il dottore ha provato a giustificare la sua scelta, e - spiega Beniamino - "ci ha mostrato un decreto del 2005 in cui si diceva che chi ha 'comportamenti sessuali a rischio' può essere escluso dalla donazione, ma - recrimina ancora il giovane - io gli ho spiegato che ancora una volta quella era una discriminazione a priori perché lui non aveva nessun parametro per dire che quello fosse il nostro caso". Dopo un'estenuante colloquio col medico, i due ragazzi decidono di chiamare i carabinieri che, al termine di un confronto di almeno due ore col dottore, vanno via "spiegandoci che loro non hanno l'autorità per costringere nessuno ad accettare una donazione". La ciliegina sulla torta, però, la regala ancora una volta il medico. 

"Siamo andati da lui - ricorda Beniamino - chiedendo una dichiarazione in cui certificava che la nostra donazione era stata rifiutata perché eravamo omosessuali e lui ci ha risposto - dice non senza un po' di rabbia - che avremmo potuto donare a patto che avessimo firmato una dichiarazione di integrità morale. Assurdo". 

Quello che voleva essere un "anonimo" gesto di nobiltà è diventato così un caso nazionale. "Noi questa visibilità non la vogliamo. Noi volevamo soltanto vedere riconosciuto un nostro diritto - sottolinea il ragazzo - Quando ti accetta la zia, il paese, il condominio e un medico ti risponde in quel modo ti viene da piangere. Io e Antonio ci guardavamo in faccia stupiti. Ci sembrava - conclude - di essere tornati a dieci, quindici anni fa". 

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