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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

L'Italia è un Paese per vecchi: la metà è over 45

I dati nell'ultimo report dell'Istat: il Belpaese si è trasformato negli ultimi 60 anni: nel '50 era tra i più giovani d'Europa, poi c'è stato un veloce invecchiamento

L'Italia è diventato un Paese per vecchi. Una trasformazione incredibile avvenuta nell'ultimo mezzo secolo: infatti negli anni '50 l'Italia era tra gli Stati europei più giovani, ma rispetto agli altri è invecchiata di più e più velocemente. 

La conferma arriva dal report Istat dal titolo 'Sessant'anni di Europa', pubblicato sul sito dell'Istituto di Statistica italiano: “Se nel 1957 la metà della popolazione italiana aveva meno di 31 anni, ora ne ha più di 45. In sessanta anni, dunque, il baricentro della popolazione italiana si è spostato di oltre 15 anni”.

Un fenomeno che è stato registrato anche in altri Paesi, ma con minore intensità. Lo spostamento è stato in media "di 11 anni": da "33 a 44 anni nei 6 Paesi fondatori e da 32 a 43 nel complesso dell'Ue".

Schermata 2017-10-20 alle 13.44.35-2Ecco la sintesi per la stampa pubblicata sul sito dell'Istat:

Popolazione

All’indomani della Seconda guerra mondiale l’aumento della popolazione in Europa procede a ritmi sostenuti fino ai primi anni Settanta. Dal 1980 la traiettoria dell’Italia si distacca da quella degli aggregati europei, poiché la popolazione rimane pressoché stabile. Soltanto dall’inizio del nuovo millennio la crescita della popolazione italiana riprende, soprattutto per l’apporto della popolazione straniera, e la forbice con gli altri paesi torna a ridursi. Con la grande recessione iniziata nel 2008 la popolazione italiana dapprima ristagna e dal 2015 diminuisce.

Storicamente, il dopoguerra si caratterizza per un andamento decrescente delle nascite, con l’eccezione degli anni del boom economico. In seguito le nascite tornano a diminuire progressivamente in tutta Europa per poi stabilizzarsi dalla metà degli anni Ottanta. Anche in questo caso, l’insorgere della crisi nel 2008 si traduce in un calo progressivo delle nascite, ben più marcato in Italia che nel resto d’Europa.

Contrariamente a una credenza radicata, il numero di figli per donna in Italia si mantiene inferiore ai valori europei fino a metà degli anni Sessanta. Sebbene da quella data inizi un diffuso declino, il tasso di fecondità totale rimane superiore ai 2 figli per donna sino alla metà degli anni Settanta. Negli anni Novanta si raggiungono i punti più bassi: 1,22 figli per l’Italia. Dagli anni Duemila si registra un aumento, da attribuire in buona parte alla componente straniera.

L’età media delle donne al parto è in Italia strutturalmente superiore a quella rilevata negli aggregati europei. Quanto alle tendenze, fino al 1980 l’età diminuisce per poi crescere rapidamente, anche per effetto di un spostamento delle diverse tappe di passaggio alla vita adulta.

Sebbene il miglioramento della speranza di vita alla nascita sia comune a tutti i paesi sviluppati, il valore italiano si è mantenuto al di sotto di quelli europei fino all’inizio degli anni Settanta, per poi superarli stabilmente. Siamo attualmente uno dei paesi a maggiore longevità, all’interno di un continente comunque caratterizzato da valori molto elevati.

Per effetto dell’aumento della speranza di vita e del rallentamento delle nascite, la popolazione europea invecchia. L’Italia, che negli anni Cinquanta era tra i paesi europei più giovani, rispetto agli altri è invecchiato di più e più rapidamente. Se nel 1957 la metà della popolazione italiana aveva meno di 31 anni, ora ne ha più di 45. Un fenomeno simile ha interessato, anche se in misura minore, gli aggregati europei per i quali lo spostamento è di 11 anni.

L’Italia è stata storicamente un paese d’emigrazione, gli espatri eccedono gli arrivi fino all’inizio degli anni Settanta. Segue un lungo periodo di stasi, in cui ingressi e uscite si compensano e si attestano su valori piuttosto bassi. Dal 1991 l’Italia diventa un Paese d’immigrazione ma il fenomeno, in crescita fino al 2007, rallenta poi sensibilmente per effetto della Grande recessione.

Società

Il nostro è un paese relativamente meno urbanizzato rispetto ai suoi partner europei. In Europa si contano 158 città con oltre 300 mila abitanti, ma soltanto 35 superano il milione: tra queste Roma, Milano, Napoli e Torino, che occupano rispettivamente il 5°, 7°, 12° e 18° posto tra le grandi città del vecchio continente. Dal 1957 a oggi il numero delle città italiane con oltre 300 mila abitanti è quasi raddoppiato (da 17 a 31) e la popolazione che vi risiede è aumentata del 44%.

Dal 1960 a oggi la quota di bambini nati da coppie non sposate è cresciuta in misura rilevante in tutta Europa. Il nostro Paese si differenzia però sensibilmente nei livelli: già negli anni Sessanta la quota di figli nati fuori dal matrimonio era in Italia di poco superiore al 2% mentre nel resto d’Europa si aggirava attorno al 5. A partire dalla metà degli anni Settanta inizia a crescere ovunque ma in Italia i ritmi sono meno sostenuti fino all’inizio del nuovo millennio.

Il calo della mortalità infantile è invece generalizzato. Nel 1957, alla firma dei Trattati di Roma, il tasso è del 39,6 per mille nel complesso dei sei paesi fondatori e del 49,6 per mille in Italia. Vent’anni dopo, nel 1977, il tasso di mortalità infantile in Italia è inferiore alla media Ue e sotto la soglia del 20 per mille; nel 1987 è sotto il 10 per mille e dal 2010 è sotto il 3 per mille, uno dei migliori risultati tra i 28 stati membri.

L’Italia presenta tassi di istruzione universitaria molto più bassi della media europea. Dalla metà degli anni Novanta la percentuale di persone di 30-34 anni in possesso di un diploma di laurea è in costante aumento, triplicando tra il 1992 e il 2016. Un aumento analogo si registra anche nel resto d’Europa e negli anni la distanza tra l’Italia e la media comunitaria si è mantenuta attorno ai 10 punti percentuali. Nel nostro Paese la quota di donne sul totale dei laureati è generalmente superiore rispetto alla media europea.

La povertà in Italia si attesta su livelli costantemente superiori rispetto ai partner europei. La crisi del 2008 ha avuto un effetto molto più intenso: dopo il 2010 il tasso di deprivazione materiale è aumentato di circa 5 punti percentuali e il rischio di povertà o esclusione sociale di circa 3 punti, a fronte di un aumento di un solo punto per entrambi gli indicatori negli aggregati europei.

Nel 1970 il parco auto circolanti nei sei paesi fondatori era pressoché analogo: circa 20 automobili per 100 persone. Nel 1991 l’Italia ha superato la soglia di una macchina ogni due abitanti e l’indicatore ha continuato a crescere: attualmente si registrano 62 vetture ogni 100 abitanti in Italia e 50 nell’Ue28.

Lavoro

Nel 2016 il tasso di occupazione in Italia è pari al 57,2% della popolazione in età attiva, un livello inferiore a quello osservato nel complesso dell’Ue e ancor più basso se si considerano i soli sei Paesi fondatori. Il ritardo dell’Italia sul fronte della partecipazione al lavoro non è una novità ma si accentua negli anni della crisi toccando livelli mai riscontrati. L’obiettivo di Europa 2020 di un tasso di occupazione al 75% appare molto lontano.

Nel 1963 il tasso di disoccupazione in Italia era al 4%: un minimo storico comunque superiore a quello del gruppo dei sei fondatori. Tra il 2004 e il 2007 il nostro Paese si attesta su livelli di disoccupazione inferiori al complesso dei fondatori ma il risultato è di breve durata. Con la crisi riemergono le difficoltà del mercato del lavoro italiano e il tasso di disoccupazione risale superando, già nel 2008, l’aggregato dei paesi fondatori e, nel 2012, anche il complesso dell’Ue. Il 2014 è l’anno in cui in Italia si registra il più elevato livello del tasso di disoccupazione degli ultimi 60 anni.

La partecipazione al mercato del lavoro, misurata con il tasso di attività, mostra per quasi 20 anni dalla firma dei Trattati di Roma un andamento negativo, più accentuato in Italia rispetto al complesso dei paesi fondatori. Soltanto nel 2000 il tasso di attività dell’Italia torna al livello del 1960. Nel 2016, il divario con i sei paesi fondatori è di oltre 10 punti percentuali (erano poco più di 3 nel 1960).

Meno marcata invece, anche se consistente e pari a 8 punti percentuali, la distanza con l’insieme dell’Ue.Nei primi anni Ottanta il divario fra il tasso di occupazione maschile e femminile nella fascia di età 55-64 anni era davvero ampio, in particolare in Italia. Tale differenza, che pure si è attenuata a partire dagli anni Novanta, mantiene lontana la situazione italiana da quella dei sei fondatori, che hanno visto ridursi intensamente le disparità di genere.

La quota dei salari, cioè la percentuale di reddito spettante al lavoro dipendente, dagli anni Ottanta è andata diminuendo nell’insieme dei Paesi fondatori e ancor più in Italia. Trattandosi di un indicatore anticiclico – nelle fasi iniziali delle crisi la quota dei redditi da capitale tende a diminuire di più rispetto a quella dei redditi da lavoro – nel periodo 2008-2010 si è avuto un recupero, che ha però solo temporaneamente interrotto la tendenza storica al deterioramento della quota dei redditi da lavoro sul Pil.

Economia

La crescita economica nei decenni successivi la creazione della Comunità europea è stata impetuosa in tutti i paesi fondatori: nel 2007 il potere d’acquisto pro capite era pari a 4,5 volte il livello del 1960 per l’Italia, a circa 4 volte per l’insieme dei paesi fondatori. Nel 2008 la crisi ha interrotto questo lungo ciclo espansivo, fino al moderato recupero dell’ultimo biennio.

La struttura dell’economia negli ultimi 60 anni è cambiata profondamente. Nel 1960 l’agricoltura contribuiva per circa il 10% al valore aggiunto dei paesi fondatori, in Italia per quasi il 15%. Il peso dell’industria – comprese le costruzioni – era superiore al 40% (37% in Italia) e quello dei servizi pari a poco meno della metà del totale. Nel 2016, il contributo dell’agricoltura si è ridotto all’1,3% (2,1% in Italia) e quello dei servizi è salito fino a rappresentare quasi i tre quarti del totale del valore aggiunto.

Il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo in Italia ha iniziato a crescere già negli anni Settanta, accelerando nel decennio successivo, in cui si è determinato un progressivo divario rispetto agli altri Paesi fondatori. L’aggiustamento messo in atto nel corso degli anni Novanta ha portato a una riduzione del rapporto tra debito e Pil. La crisi ha però indotto un nuovo peggioramento.

I prezzi al consumo per decenni in Italia sono aumentati in misura maggiore rispetto all’aggregato dei Paesi fondatori. Fino al 1999 (anno di adozione dell’euro, anche se non come moneta circolante), la dinamica più sostenuta dei prezzi interni è stata compensata da periodiche svalutazioni della lira: queste consentivano di recuperare competitività di prezzo rispetto agli altri paesi europei, contribuendo però a innalzare il premio in termini di tassi di interesse che i debitori – compreso lo Stato – pagano per l’incertezza sul valore futuro delle obbligazioni. Negli ultimi anni si è affermata una maggior disciplina, caratterizzata però dalla compressione dei salari e dei margini di vendita.

La spesa per ricerca e sviluppo (R&S) è cresciuta rapidamente in tutti i Paesi fondatori fino alla metà degli anni Ottanta: tra il 1963 e il 1985 la sua incidenza sul Pil è salita dall’1,5 al 2,1% per il gruppo E6 e dallo 0,6 all’1,1% in Italia. Nel ventennio successivo l’andamento ha seguito quello del Pil. Nel nostro paese l’incidenza della spesa in R&S continua a essere assai inferiore alla media europea.

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