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Venerdì, 19 Aprile 2024
Il libro inchiesta

Moby Prince, 30 anni dopo è una strage senza verità

E' stata la più grande tragedia del mare nella storia d'Italia e oggi resta un mistero senza verità. Un puzzle che prova a ricomporre il giornalista Vincenzo Varagona nel suo libro, mentre i familiari delle vittime chiedono l'istituzione di una Bicamerale

Ci sono fatti che finiscono negli archivi della storia sotto la categoria “misteri italiani”, a cui si guarda anche con un certo interesse perché ammantanti di un alone noir capace di affascinare una sana e legittima curiosità. Ma quando quei fatti restano irrisolti dopo processi, commissioni parlamentari e libri inchiesta, quando i familiari delle vittime vivono senza una risposta al “perché” la loro vita sia stata distrutta, quando passano gli anni senza che lo Stato abbia saputo trovare la verità, allora non sono più misteri, sono ingiustizie. Dimenticarle equivale all’ennesima mortificazione per chi oggi vive sperando un giorno di sapere. Quei misteri devono essere sgretolati e i fatti devono essere raccontanti anche a distanza di decenni.

Come ha fatto Vincenzo Varagona, giornalista per Rai e il quotidiano Avvenire, autore di un libro in cui ripercorre la strage del Moby Prince, il traghetto che nella notte del 10 aprile 1991 si schiantò contro la petroliera Agip Abruzzo, all’uscita dal porto Livorno. Ci furono 140 morti e un solo sopravvissuto: il mozzo Alessio Bertrand, al suo primo imbarco, salvatosi camminando sui cadaveri. Nel libro “I segreti del Moby Prince”, edito da Vydia, il giornalista marchigiano riavvolge il nastro di 30 anni e ci riporta a quella notte in cui si è consumata la più grande tragedia marittima della repubblica italiana, quando i soccorsi aspettarono ore prima di arrivare alla motonave diretta in Sardegna, lasciando morire i passeggeri. Ci furono processi farsa, depistaggi, testimonianze architettate a tavolino. Fin da subito la macchina istituzionale provò a cassare tutto come un incidente dovuto ad una distrazione del comandane, forse troppo impegnato a vedere la partita di Coppa delle Coppe fra Juventus e Barcellona. Si parlò di errore umano, forse anche per la nebbia, la cui presenza fu poi smentita da tante testimonianze e da video registrazioni del porto. Ma sarebbe stata una spiegazione facile, ancor più comoda se unita alla pseudo consolazione di pensare che la morte sarebbe arrivata in un quarto d’ora al massimo.

Tutto falso. Tutto ribaltato dalle indagini dalle associazioni “140” e “Io sono 141”, che riuniscono i familiari delle vittime. Ma soprattutto dal lavoro straordinario della Commissione parlamentare voluta da Pietro Grasso nel 2015, capace di smascherare una macchina impiantata ad arte per occultare, deviare e lasciare nell’oblio la verità. Quella commissione stabilì all’unanimità una serie di fatti: quella sera non vi fu alcuna nebbia, la petroliera era in una zona di divieto di ancoraggio, il Moby ebbe un disturbo della navigazione sulla sua rotta, le persone a bordo sopravvissero per molte ore in attesa di soccorsi, che alla fine non arrivarono mai. Altrimenti, come si sarebbero potuti spiegare quei corpi carbonizzati con indosso brandelli di giubbotti di salvataggio squagliati? La verità processuale fu completamente ribaltata e la storia consegnò alla politica il merito di aver scoperto come, in Italia, 140 persone fossero state lasciate morire fra le fiamme. “È evidente: quello che non sono riusciti a fare una dozzina di magistrati in tanti anni, lo hanno fatto una ventina di senatori in due anni” dirà Luchino Chessa, figlio di Ugo, comandante del Moby Prince. Restava da capire il perché.

Moby Prince e i soccorsi che non arrivarono mai

Varagona non si ferma alle voci e ai sospetti ma, da cronista quale è, ricostruisce i fatti, pezzo dopo pezzo, attraverso i documenti e le parole di chi, a suo tempo, fu parte attiva nell’indagine. Tra questi il capitano di fregata Gregorio de Falco che, conosciuto al grande pubblico per la gestione della crisi della Costa Crociere all’Isola d’Elba, fu ascoltato tre volte dalla Commissione d’inchiesta sul Moby Prince nell’ottobre 2016. Disse che “i soccorsi non erano stati adeguati”, parlando di una inaccettabile “asimmetria tra i soccorsi fattivi all’equipaggio dell’Agip Abruzzo, con la mancata ricerca ed il mancato soccorso verso il traghetto, il cui ritrovamento fu fortuito. La causa della morte risiede nel fatto che non è stato effettuato il soccorso e che le autorità preposte hanno abdicato a quella doverosa funzione”. Anche perché, e questo emergerà nelle successive autopsie sui cadaveri, morirono tutti per il monossido di carbonio presente nel sangue, segno inequivocabile che le vittime, intrappolate nel salone Deluxe circondato dalle fiamme, erano rimaste in vita per ore, prima di perdere i sensi.

I misteri del Moby Prince, dalle navi da guerra a Ilaria Alpi

In 30 anni si sono succeduti 2 processi, 2 commissioni e ancora oggi, non c’è una verità sul Moby Prince. Non ci sono responsabili. Anzi, col passare degli anni, si sono sempre accatastati dettagli inquietanti, apparentemente senza una logica, almeno fino al 2017, quando la seconda Commissione parlamentare di inchiesta ha riconosciuto che le dichiarazioni dei coinvolti erano state “convergenti nel negare evidenze o nel fornire versioni inverosimili dell’accaduto”. Qualcuno aveva anche mentito quindi. E poi la scoperta di almeno sette navi militari americane provenienti dal Golfo Persico in quello specchio di mare. Che cosa ci facevano? Dovevano forse trasportare armi o rifiuti tossici verso Camp Darby, la più grande base americana a pochi chilometri da Livorno? Fa pensare il fatto che sulla Moby Prince siano state trovate anche tracce di diversi tipi di esplosivo. Così, ad un tratto, sembra palesarsi la peggiore delle opzioni: il Moby Prince potrebbe essere finito in mezzo a qualcosa di enorme. Così nell’ultimo libro inchiesta di Varagona, si intrecciano scenari terroristici e stragisti, si cerca di mettere insieme i pezzi di un puzzle intricato. Si cerca di capire se ci possa essere un collegamento fra il disastro e la presenza del peschereccio 21 Oktobar II, la nave madre delle sei imbarcazioni della Shifco, donati dalla cooperazione italiana alla Somalia durante la sanguinaria dittatura di Siad Barre. Proprio quella su cui avrebbe indagato la giornalista Ilaria Alpi, prima di essere uccisa 3 anni dopo. E poi il giallo nel giallo, quello di un accordo assicurativo a copertura della Moby Prince per un valore quasi tre volte il suo valore commerciale, con una polizza “rischio guerra”. Che senso potrebbe aver avuto assicurare una motonave per una cosa così improbabile come quella di finire in una guerra navale?

Moby Prince oggi, tra un processo per strage e l’ipotesi Bicamerale

Troppi lati oscuri dopo 3 decenni. Ma in quel disastro morirono persone. Da quella notte cambiò la vita di 140 famiglie. È importante ascoltare anche i loro cuori che Varagona, nella seconda parte del suo libro, cerca di aprire con delicatezza, intervistando i parenti delle vittime. C’è il colloquio con Adolfo Granatelli, fratello di Giuseppina, la sposa della provincia di Fermo il cui corpo sarebbe poi stato trovato abbracciato a quello di Bruno Fratini, con il quale era appena partita per il viaggio di nozze. C’è il racconto di Ivanna Porta di Reggio Emilia, che ha perso il marito Umberto e la figlia Monica. C’è la storia di Ingrid Bigliardi, la nipote di Ivanna Porta, che aiuta a capire come la tragedia abbia avuto ripercussioni pesanti su intere reti familiari. E poi ci sono i giornalisti che hanno lavorato per anni sul caso.

Quelle di “I segreti del Moby Prince” sono pagine dense di storia ed emozione, capaci di suscitare rabbia, rancore e fa rivivere il lutto in chi ha perso un genitore, un fratello, un figlio. E' dura da digerire l'idea che la persona amata sia morta in una strage, la parola che definisce l’accusa intorno alla quale oggi è in piedi il terzo processo e stavolta non ci saranno prescrizioni. Non è solo memoria, dolore e ricordo. Le famiglie continuano a dare battaglia per la Bicamerale, di cui l’onorevole Andrea Romano del Partito Democratico è primo firmatario della richiesta. Ci sarà anche una nuova commissione di inchiesta, proposta da Pd, Movimento 5 Stelle e Lega. Ma dopo 30 anni di affanno, si rischia di rassegnarsi al fatto che una risposta non arrivi mai. Non è giusto. Non lo è per l’Italia privata di una verità storica, non lo è per le famiglie delle vittime, la cui sofferenza non troverà mai pace senza quella verità. Come dice Adolfo Granatelli, fratello di Giuseppina, “abbiamo bisogno di una risposta che lenisca il dolore, che ci permetta di capire le ragioni di una simile disgrazia”. Se esiste, deve essere rivelata. Nel frattempo, c’è chi, come il giornalista Vincenzo Varagona, cerca di tenere viva l’attenzione.

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